domenica 9 settembre 2018

Il figlio di Bakunìn


Il figlio di Bakunìn, di Sergio Atzeni per i tipi di Sellerio editore Palermo. Ambientato nella Sardegna fra il primo e il secondo dopoguerra, per mezzo del meccanismo dell'intervista a vari personaggi, viene a delinearsi la figura del protagonista il quale non compare mai in prima persona ma attraverso il racconto di coloro che lo avevano conosciuto. Un espediente narrativo molto interessante anche se non originale, che rende la lettura molto agile e diversificata, come lo sono le voci che la compongono. Un consiglio di lettura veloce, si legge d'un fiato, ma che si percorre come guardando fuori dal finestrino di un treno immaginario, dove sembrano apparire, insieme alle storie personali, alcune vicende del secolo passato nel nostro Paese.

sabato 13 luglio 2013

Psichismo




Se la descrizione del corpo fatta dalla psicologia classica offriva già tutto quanto occorre per distinguerlo dagli oggetti, per quale motivo gli psicologi non hanno operato questa distinzione o comunque non ne hanno tratto nessuna conseguenza filosofica? A questo proposito, va detto che, con un modo di procedere naturale, essi si collocavano nel luogo di pensiero impersonale al quale la scienza si è riferita finché ha creduto di potere separare, nelle osservazioni, ciò che dipende dalla situazione dell'osservatore e le proprietà dell'oggetto assoluto. Per il soggetto vivente, il corpo proprio poteva sì essere differente da tutti gli oggetti esterni, ma, per il pensiero non situato dello psicologo, l'esperienza del soggetto vivente diveniva a sua volta un oggetto e, anziché richiedere una nuova definizione dell'essere, prendeva posto nell'essere universale. Ecco il significato di «psichismo», che, pur essendo contrapposto al reale, era trattato come una seconda realtà, come un oggetto di scienza che andava sottomesso a leggi. Si postulava che la nostra esperienza, già investita dalla fisica e dalla biologia, doveva risolversi interamente in sapere oggettivo quando il sistema delle scienze fosse portato a termine. Conseguentemente, l'esperienza del corpo si degradava a «rappresentazione» del corpo, non era un fenomeno, ma un fatto psichico. Nell'apparenza della vita il mio corpo visivo comporta una vasta lacuna al livello della testa, ma la biologia era lì a colmare questa lacuna, a spiegarla con la struttura degli occhi, a insegnarmi che cosa in verità è il corpo, che ho una retina, un cervello come gli altri uomini e come i cadaveri che seziono, e che infine lo strumento del chirurgo metterebbe infallibilmente a nudo, in questa zona indeterminata della mia testa, la copia esatta delle tavole anatomiche. Io colgo il mio corpo come un oggetto-soggetto, come capace di «vedere» e di «soffrire», ma queste rappresentazioni confuse facevano parte delle curiosità psicologiche, erano campioni di un pensiero magico di cui la psicologia e la sociologia studiano le leggi e che fanno rientrare a titolo di oggetto di scienza nel sistema del mondo vero. L'incompletezza del mio corpo, la sua presentazione marginale, la sua ambiguità come corpo toccante e corpo toccato non potevano quindi essere dei lineamenti di struttura del corpo stesso, non ne scalfivano l'idea, divenivano i «caratteri distintivi» dei contenuti di coscienza che compongono la nostra rappresentazione del corpo: questi contenuti sono costanti, affettivi e bizzarramente accoppiati in «sensazioni doppie», ma, a parte ciò, la rappresentazione del corpo è una rappresentazione come le altre e, correlativamente, il corpo è un oggetto come gli altri. Gli psicologi non si accorgevano che, trattando in questo modo l'esperienza del corpo, non facevano altro, d'accordo con la scienza, che differire un problema inevitabile. L'incompletezza della mia percezione era intesa come una incompletezza di fatto derivante dall'organizzazione dei miei apparati sensoriali; la presenza del mio corpo come una presenza di fatto risultante dalla sua azione perpetua sui miei recettori nervosi; infine, l'unione dell'anima e del corpo, presupposta da queste due spiegazioni, era concepita, secondo il pensiero di Cartesio, come una unione di fatto la cui possibilità di principio non doveva essere stabilita, poiché il fatto, punto di partenza della conoscenza, veniva eliminato dai suoi risultati compiuti. Orbene, lo psicologo poteva sì per un momento, alla maniera degli scienziati, guardare il proprio corpo con occhi altrui, e vedere il corpo altrui, a sua volta, come un meccanismo senza interiorità. L'apporto delle esperienze estranee veniva a cancellare la struttura della sua, e reciprocamente, avendo perduto il contatto con se stesso, egli diveniva cieco per il comportamento altrui. Si installava così in un pensiero universale che rimuoveva tanto la sua esperienza dell'altro quanto la sua esperienza di se stesso. Ma, come psicologo, egli era impegnato in un compito che lo richiamava a se stesso, e non poteva rimanere a questo punto di incoscienza. Infatti, il fisico non è l'oggetto di cui parla, come non lo è il chimico, mentre lo psicologo era lui stesso, per principio, il fatto di cui trattava. Quella rappresentazione del corpo, quella esperienza magica che egli affrontava con distacco, era lui, egli la viveva nello stesso tempo in cui la pensava. Come è stato dimostrato, per conoscere lo psichismo non gli bastava certo il fatto di esserlo: al pari di ogni sapere, anche questo sapere viene acquisito solo in virtù dei nostri rapporti con l'altro; non è all'ideale di una psicologia di introspezione che ci riportiamo, e lo psicologo poteva e doveva riscoprire un rapporto preoggettivo sia fra se stesso e l'altro che fra se stesso e se stesso. Ma in quanto psichismo che parlava dello psichismo, egli era tutto ciò di cui parlava. Di questa storia dello psichismo, che egli sviluppava nell'atteggiamento oggettivo, lo psicologo possedeva già pr3esso di sé i risultati: o meglio: piuttosto ne era, nella sua esistenza, il risultato contratto e il ricordo latente. L'unione dell'anima e del corpo non si era compiuta una volta per tutte in un mondo remoto, ma in ogni istante rinasceva al di sotto del pensiero dello psicologo, non come un evento che si ripete e che ogni volta sorprende lo psichismo, ma come una necessità che lo psicologo sapeva nel proprio essere nello stesso tempo in cui la constatava con la conoscenza. La genesi della percezione, dai «dati sensibili» sino al «mondo», doveva rinnovarsi a ogni atto percettivo, altrimenti i dati sensibili avrebbero perduto il senso che dovevano a questa evoluzione. Lo «psichismo» non era quindi un oggetto come gli altri: tutto ciò che si sarebbe detto di esso, lo psichismo l'aveva già fatto prima che lo si dicesse; su se stesso l'essere dello psicologo la sapeva più lunga di lui, a detta della scienza nulla di ciò che gli era accaduto o gli accadeva gli era assolutamente estraneo. Applicato allo psichismo, il concetto di fatto subiva quindi una trasformazione. Lo psichismo di fatto, con le sue «particolarità», non era più un evento nel tempo oggettivo e nel mondo esterno, ma un evento che toccavamo dall'interno, di cui noi eravamo il compimento o il nascimento perpetui e che raccoglieva continuamente in sé il suo passato, il suo corpo e il suo mondo. Prima di essere un fatto oggettivo, l'unione dell'anima e del corpo doveva quindi essere una possibilità della coscienza stessa e si poneva il problema di sapere che cosa deve essere il soggetto percipiente per potere esperire come suo un corpo. Qui non vi era più un fatto subito, ma un fatto assunto. Essere una coscienza o piuttosto essere una esperienza, significa comunicare interiormente con il mondo, con il corpo e con gli altri, essere con essi anziché accanto a essi. Occuparsi di psicologia significa necessariamente incontrare, sotto il pensiero oggettivo che si muove fra le cose bell'e fatte, una prima apertura alle cose senza la quale non ci sarebbe conoscenza oggettiva. Lo psicologo non poteva fare a meno di riscoprirsi come esperienza, cioè come presenza immediata al passato, al mondo, al corpo e all'altro, nel momento stesso in cui voleva riconoscersi come oggetto fra gli oggetti. Ritorniamo dunque ai «caratteri» del corpo proprio e riprendiamone lo studio al punto in cui lo avevamo lasciato. In questo modo ripercorreremo il progresso della psicologia moderna ed effettueremo con essa il ritorno all'esperienza.
(Maurice Merleau Ponty, Fenomenologia della percezione, Studi Bompiani).

domenica 16 giugno 2013

Sentire


Il sentire non si riferisce solo all'acustica e all'organo ad essa destinato, l'orecchio. Il sentire dilata l'estetica nella sua più profonda percezione corporea: un'estetica che sente la filosofia non più ristretta o circondata dal logos, pluralizza le onde soniche, si colloca in spazi liminali dove il già-udito è obsoleto e il non-detto deve ancora pervenire, sente lo sguardo che ruota verso l'invisibile. (Massimo Canevacci in Riscoprire il silenzio, a cura di Nicoletta Polla-Mattiot, BCDe, 2013).



Il sentire riporta al sonoro ma anche al silenzio, colmando spazi nei quali ci sentiremmo perduti senza la sensazione interiore che ci pervade, permettendo l'ascolto interiore troppo spesso offuscato dal clamore esterno. Sentire con l'orecchio ma anche con il cuore, con lo spirito; sentire un sentimento, uno stato d'animo, una percezione che porta l'altro verso di noi all'interno di una comunicazione dove la parola non è necessaria, dove l'incontro di sguardi, nel contatto visivo e fisico porta il non detto oltre la sfera della razionalità.
Sentire è anche ascoltare, porsi in essere per l'altro; sentire è apertura quando è rivolta all'esterno ma anche chiusura se richiama l'introspezione.

domenica 5 maggio 2013

Umanità e specificità dell'uomo


L'uomo non fa più parte dell'ordine degli esseri. Non può essere semplicemente uomo. Ha mancato la sua vocazione naturale, la sua vocazione d'uomo. Se volesse ridiventare semplicemente uomo, uomo come l'ha fatto la natura, non potrebbe. L'uomo si è soppresso da sé. Non si può più classificarlo tra le creature della natura, definirlo com'è per la sua natura. In questo senso è impossibile dire che cosa caratterizza essenzialmente l'uomo... Per Agostino l'uomo non è un essere che si possa senz'altro definire, che si possa afferrare in modo generale e astratto. Questo sarebbe possibile solo se non avesse peccato; come Adamo nel paradiso determinato dalla sua natura psicofisica e definito in generale secondo il posto che occupa nel cosmo. Ma, peccando, l'uomo si è distaccato da questo insieme. Ha cessato di essere una creatura della natura; diviene uomo in senso storico, un essere che vive in un'epoca determinata e che incontreremo una sola volta. Diviene quest'uomo qui, che non ci interessa più per una costituzione psicofisica definibile in generale, bensì per quello che ha vissuto, per le sue esperienze, per la sua storia. Non vediamo più in lui unicamente il rappresentante di una specie, definita una volta per tutte, ma l'insieme delle esperienze attraverso le quali è passato e che lo caratterizzano come individuo, come tipo d'uomo.

(B. Groethuysen, Antropologia filosofica)






Nel suo perdere la genericità tipica della specie, l'uomo ha acquisito il senso dato dall'identità che lo caratterizza come essere unico e irripetibile e non classificabile in categorie omogenee. Il dato specifico della propria singolarità spazza via il campo delle possibilità omologanti, nelle quali è impossibile definire l'essere umano come un qualcosa che risponda a stilemi stereotipati. Per quanto si possa generalizzare e uniformare i caratteri tipici che rispondono ad una caratterizzazione uniformante un gruppo sociale, le specificità che ne emergono potranno sempre superare la definizione generalista che non tenga conto della identità individuale.

domenica 10 marzo 2013

Il Cammino dell'uomo


Basta porsi quest'unica domanda: “A che scopo?”; a che scopo ritornare in me stesso, a che scopo abbracciare il mio cammino personale, a che scopo portare a unità il mio essere? Ed ecco la risposta: “Non per me”. Perciò anche prima si diceva: cominciare da se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé. (Martin Buber – Il cammino dell'uomo, p. 50. Edizioni Qiqajon Comunità di Bose.





“Conosci te stesso” era scritto all'ingresso dell'antro dell'oracolo di Delfi, e questa conoscenza è necessaria e percorribile soltanto attraverso un cammino nel quale l'essere umano si definisce nel suo esserci che si riconosce in quanto gettato nel mondo e, di conseguenza, posto in relazione con esso. La relazione quindi come elemento di veifica e definizione possibile soltanto nell'incontro con l'altro il quale, ponendosi di fronte e intenzionandosi a sua volta nel suo relazionarsi, co-innesca il meccanismo volto a stabilire il reciproco riconoscimento dell'esistere in relazione con l'altro da sé.

lunedì 11 febbraio 2013

Dualismo corpo-anima

 
Il dualismo corpo-spirito, junghianamente inteso o come anima, nel senso della tradizione filosofica greca e successivamente giudaico-cristiana, ha stabilito, da Cartesio in avanti, che il corpo possa essere inteso come un organismo risultante dalla sommatoria di svariati organi, sezionabili, analizzabili e misurabili, in una parola, oggettivati come enti riducibili a cose, parimenti a tutto ciò che risponde alle leggi della natura. La medicina occidentale su questo ha costruito il suo edificio e i progressi in senso scientifico da questo punto di vista ha permesso il progresso di questa scienza che è fuori discussione, almeno per quanto riguarda l'approccio curativo considerato dal punto di vista organicistico. Diverso è il discorso se consideriamo quelle cosiddette “patologie dell'anima”, o psichiche, non rilevabili attraverso gli strumenti di indagine diagnostica della medicina organica. Come dice giustamente Galimberti, se prendiamo in considerazione una depressione, ad esempio, non potremo ridurre questa patologia come un unicum trasferibile da un soggetto all'altro, perché ciascuna persona interessata a questo tipo di disturbo avrà un suo modo di essere depresso, di vivere la malattia, ammesso che anche questo sia il termine giusto per definirne il problema. Dovremo quindi considerare, dal punto di vista del prenderci cura della persona in questione, della sua unicità, del suo essere il prodotto del suo storicizzato, nel senso delle relazioni che hanno costruito, nel tempo, il suo essere unico e irripetibile. L'analisi e la cura dovranno partire da questo e l'unico strumento a disposizione di chi si prenderà carico nel condurre questa persona alla consapevolezza del suo essere (non uso volutamente il termine guarigione, in quanto lo considero un non senso), sarà la relazione finalizzata ad una riduzione eidetica che favorisca l'emersione delle essenze primarie che costituiscono il fondamento della personalità di ciascuno, nel senso di recuperare quei contenuti (koinemi) di base, quali il materno, il paterno, il fraterno, ecc. che possano permettere il recupero di un equilibrio probabilmente perso.
 

domenica 13 gennaio 2013

Filosofia e scienza


Non soltanto l'empirismo imparziale porta ai veri confini ove comincia la riflessione filosofica, ma anche, all'opposto, soltanto una coscienza filosofica rende possibile una autentica e sicura impostazione per la ricerca empirica. Il rapporto fra filosofia e scienza non è tale che gli studi filosofici possano trovare la loro applicazione nella scienza – il tentativo sempre infruttuoso, per quanto sempre ripetuto, di dare nomi filosofici a fatti empirici – ma la riflessione filosofica produce un atteggiamento interiore utile alla scienza perché pone dei limiti, è una guida interiore, uno stimolo continuo al desiderio illimitato di sapere. Una logica filosofica deve ricevere conferma come logica concreta nel modo di intendere e di strutturare i fatti. Lo psicopatologo non deve occuparsi di filosofia perché questa gli insegni qualche cosa di positivo per la sua scienza, ma perché gli dia le più vaste possibilità di sapere. (K. Jaspers – Psicopatologia generale – Il Pensiero scientifico editore)



Il rapporto sempre problematico tra scienze naturali e scienze dello spirito, lo stabilire i confini tra le due discipline ma anche la necessità di definire un sapere etico il quale problematicizza la ricerca scientifica nel suo interrogarsi. La ricerca pura può permettersi di essere svincolata dall'etica? E se sì quali responsabilità comporta per l'individuo che la compie?