sabato 21 maggio 2011

Arte e(è) follia?

La follia di Nietzsche, la follia di Van Gogh o quella di Artaud, appartengono alla loro opera, non più né meno profondamente forse, ma in tutt'altro modo. Nel mondo moderno la frequenza di queste opere che scoppiano nella follia non prova nulla indubbiamente sulla ragione di questo mondo, sul senso di queste opere e neppure sui rapporti tra il mondo reale e gli artisti che le hanno prodotte. Questa frequenza bisogna tuttavia prenderla sul serio, come l'insistenza di una domanda; a partire da Hölderlin, il numero degli scrittori, pittori e musicisti che sono «sprofondati» nella follia si è moltiplicato; ma non inganniamoci; tra la follia e l'opera non c'è stato accomodamento, né scambio più costante, né comunicazione di linguaggio; il loro scontro è molto più pericoloso di un tempo, la loro contestazione non perdona; si tratta di vita o di morte. La follia di Artaud non si insinua negli interstizi dell'opera; essa è appunto l'assenza d'opera, la presenza ripetuta di questa assenza, il suo vuoto centrale sentito e misurato in tutte le dimensioni che non hanno confini. L'ultimo grido di Nietzsche, che si proclamava a un tempo Cristo e Diòniso, non è, ai confini della ragione e della sragione, il loro sogno comune, alfine raggiunto e subito sparito, di una riconciliazione tra «i pastori d'Arcadia e i pescatori di Tiberiade»; ma è l'annientamento stesso dell'opera che diventa impossibile da questo momento e deve tacere; il martello cade dalle mani del filosofo. E Van Gogh sapeva bene che la sua opera e la sua follia erano incompatibili, lui che non voleva domandare «il permesso di fare dei quadri a dei medici». (Michel Foucault – Storia della follia nell'età classica)

L'opera d'arte come prodotto della irrazionalità ben distinta dalla sragione, per usare i termini di Foucault, il confine è netto anche là dove la follia insinua la sua presenza? O è soltanto suggestione stereotipata che che vede l'artista in quanto “strano”, diverso e fuori dal comune, facilmente catalogabile come affine a una dimensione folle? Allora tutto ciò che è diverso, altro, è sempre catalogabile come alieno e di conseguenza potenzialmente pericoloso? Fino a che punto la difesa del nostro equilibrio basato su un quieto vivere sempre più precario, vacilla di fronte al confronto con ciò che ci destabilizza?

4 commenti:

  1. Non credo sia solo un problema di potere, anche l'individuo, nel suo rivoltarsi dentro le certezze di un orticello rassicurante, vede il diverso, lo strano, lo straniero come un potenziale nemico da combattere o quantomeno da allontanare incasellandolo in categorie che servono più a mettere al riparo le proprie certezze che non prevenire eventuali rischi derivati. Ciascuno di noi si pone di fronte il proprio essere "folle" relegando lo spazio dell'irrazionale in cassetti sui quali l'etichetta può solo voler dire stravaganza codificata. Tutto ciò mette al riparo da qualunque pericolo che vada oltre l'omologazione.

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  2. Ciascuno di noi ricorre a pregiudizi e stereotipi più spesso di quanto si possa credere, e questo perché sono costruzioni funzionali al nostro modo di pensare e percepire la realtà, che ci alleggeriscono dal compito di osservare più attentamente e di mettere in discussione le nostre percezioni e le nostre sicurezze. Spesso si tratta di modalità inconsapevoli messe in atto per fronteggiare la realtà, nel senso di cercare di non vederla per come essa si presenta, come se si avesse paura di non poterla sostenere, perché questa consapevolezza richiederebbe un cambiamento nel modo di porsi davanti alle situazioni, ai compiti da assolvere e agli stessi rapporti interpersonali. Quando la diversità (la follia, l’emarginazione sociale e tutto quello che ci offre un volto disturbante e antiestetico) si impone a noi, istintivamente la rifiutiamo perché minaccia il nostro ordine prestabilito. Il deviante diventa il ricettacolo delle nostre incertezze e delle nostre paure. Bisogna allora pensare e sperimentare possibilità diverse e non univoche di lettura e comprensione della realtà, modificare i propri schemi di realtà nel senso di renderli più comprensivi, più duttili, e anche, più incerti, abituarci a modalità flessibili di pensiero. Si tratta in poche parole di acquistare il senso profondo della propria identità come autonoma, separata dagli altri e distaccata da processi di conformismo, identità che, proprio perché solida e ben strutturata, può aprirsi al confronto con gli altri senza la paura di perdersi.

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  3. Vorrei provare a dire qualcosa su questo testo, molto difficile da capire perché se non è un'opera come una scultura, un quadro, è qualcosa di simile solo che usa le parole. E come ogni opera d'arte è praticamente incomprensibile per l'interlocutore. Riesco a comprenderne le sfumature, i tratti più evidenti o evidenziati per aiutarne la comprensione in una certa forma d'improvviso altruismo, ma il fondo, gli stati d'animo dell'autore sono ermetici, vengono scagliati, estratti dalla materia e proposti al mondo. Io posso sentirmi affine ma guardando, leggendo, toccando, sento, sempre di più, quanto sono diversa, quanto sono io e quanto, sempre di più sono consapevole di questa mia diversità. E la mia diversità mi fa amare, sempre di più. Voglio dire che posso accettare, a volte condividere, a volte no tutto ciò che succede attorno a me. Non significa che io sia indifferente alla miseria, al dolore, a tutto ciò che sta succedendo, ma la mia sofferenza non mi fa soffrire. Per tornare alla follia credo che l'opera sia l'espressione delle nostre pulsioni ed è per questo che rimane praticamente incomprensibile all'interlocutore e che la follia sia quando la mente non riesce a modulare queste pulsioni.. quando l'autore non riesce ad incanalare abbastanza la sua creatività o quando, addirittura non riesce ad esprimerla. Allora si che la follia è assenza di comunicazione interna perché noi siamo innanzitutto relazione, tutto in noi è relazione e quando la relazione si interrompe, cadiamo nella follia, nella depressione, nel delitto, ed altro...

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  4. La follia è rottura delle relazioni, innanzi tutto con se stessi, con il nostro pensare e creare, con il nostro rapportarci agli altri. L'assenza d'opera di cui parla Foucault è proprio questo, è l'incapacità di comunicare. Ma allora quanta follia ci circonda, negli sguardi delle persone che incontriamo per la strada, nelle facce mute di emozione, dove gli occhi temono di agganciarsi perché scoprirsi e scoprire l'altro di fronte a noi farebbe cadere le barriere che ci costruiamo attorno.

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