giovedì 29 settembre 2011

Identità e relazione

L'esperienza del diverso presuppone un incontro con l'altro da noi e svela al tempo stesso la coscienza di me stesso in quanto essere culturale inserito in un universo molteplice in un contesto all'interno del quale non è più possibile pensare che tutto ciò che mi appartiene culturalmente sia patrimonio dell'umanità intera. La presa di coscienza dell'alterità da parte dell'uomo occidentale, dal momento in cui è entrato in contatto con popolazioni culturalmente distanti da lui, ha consentito un passaggio per certi versi obbligato attraverso una riflessione identitaria che prosegue ancora oggi.
La definizione del termine stesso di cultura pone interrogativi attraverso i quali le certezze fondanti di una concezione del vivere comune vengono costantemente rimessi in discussione. Il divenire di una cultura che si pensava orientata verso un'evoluzione determinata, mette in crisi la concezione di inviolabilità dei principi sui quali si è sempre basato il sentire comune e pone in discussione il concetto stesso di esclusività rispetto alle possibili e inevitabili contaminazioni che il dialogo interculturale propone.
A questo punto la relazione si propone come motore fondante dei processi inculturativi, di conseguenza penso sia necessario puntare sull'approfondimento di questo aspetto proprio per mettere ancora di più in risalto eventuali contraddizioni insite nelle concezioni esclusiviste che derivano da pericolosi arroccamenti culturali dettati dalla paura del confronto. Acquisire gli strumenti giusti per gestire il confronto con la diversità potrebbe rappresentare la chiave per aprire la porta ad un dialogo finalmente spogliato dai pregiudizi caratterizzati dalla paura del confronto e dal timore della perdita della propria identità.

domenica 25 settembre 2011

Ciao!

Viviamo immersi in una società di amici (e non solo a causa di Facebook) dove l'estraneo sembra non esistere, dove basta entrare in un negozio, rispondere alla chiamata di un call center, per sentirsi apostrofare confidenzialmente con un ciao, con una confidenza e un senso di convivialità degne di un'amicizia di vecchia data.
Fin qui tutto bene, forse. Purché si resti nei confini del contatto superficiale, quello che non coinvolge, che non implica una necessaria messa in discussione di ciò che siamo veramente, perché gli specchi che ci troviamo di fronte potrebbero mettere a nudo ciò che siamo veramente, con i nostri difetti, le nostre imperfezioni, le nostre debolezze.
Scatta a questo punto il meccanismo di difesa che ci porta a considerare l'altro come il "nemico" dal quale guardarsi, invasore della nostra privacy.
Ma allora perché siamo così propensi ad accettare il "tu" confidenziale anche in situazioni che non lo richiederebbero?
Forse perché ci accontentiamo di contatti che non vanno oltre il primo strato della nostra essenza?
Viviamo forse in una Società nella quale la superficialità è assunta a dogma, dove nemmeno a noi stessi, a volte, è consentito di fermarsi a osservare ciò che siamo e come agiamo, presi dal ritmo frenetico del nostro vivere, ancora di salvezza contro lo sguardo interiore che potrebbe giudicare e giudicarci, mettendo in crisi la nostra stessa modalità di vita.
Se riuscissimo anche solo per un attimo a fermarci ad osservare al nostro interno, forse troveremmo più di un motivo per fuggire urlando.

Identità

Quando il muro di Berlino è caduto, il 9 novembre 1989, molte persone hanno sperato che sarebbe iniziata in tutti i continenti un'epoca di pace, libertà e prosperità senza precedenti nella Storia. Dodici anni dopo si sono verificati gli attentati dell'11 settembre 2001 e questa prospettiva è sembrata improvvisamente molto lontana. Senza dubbio ci sono state, in questo o in quel paese, dei progressi significativi - elezioni insperate, riconciliazioni spettacolari, iniziative di pace. Ma la violenza è restata quotidiana, la gestione del mondo resta confusa, gli equilibri restano fragili e l'avvenire del paese è  offuscato da mille incertezze.
Perché lo scenario ottimista non si è realizzato? Una delle spiegazioni è che con la fine della guerra fredda siamo passati da un mondo in cui gli attriti erano fondamentalmente ideologici a un mondo in cui gli attriti sono fondamentalmente identitari.
Le appartenenze religiose hanno sicuramente giocato un ruolo di primo piano nel crollo dell'edificio sovietico, dalla Polonia all'Afghanistan. Era dunque prevedibile che giocassero un ruolo anche nel periodo che ha seguito il crollo del Muro. Tanto più che le dottrine che avevano dominato il XX secolo avevano ormai perso la loro attrattiva.
Ma se il lungo confronto ideologico fra comunismo e capitalismo si è rivelato pericoloso e rischioso, aveva tuttavia avuto almeno un merito, quello di suscitare un dibattito intellettuale permanente. Al contrario, gli attriti identitari non suscitano alcun dibattito ideologico. L'appartenenza a una comunità religiosa è generalmente determinata dalla nascita e non deriva da una scelta. Un'identità si scopre, si assume, si proclama; non è mai dibattuta con coloro che appartengono alla "parte avversa". Si afferma ad alta voce la propria appartenenza, spesso con tono di sfida e di solito contro un "nemico", reale o immaginario che sia. Dopo di che, non c'è più nulla da discutere. Ci si accontenta di accusare, di condannare e di demonizzare.
Non dubito che per molti anni ancora il problema dell'identità avvelenerà la Storia, indebolirà il dibattito intellettuale, diffondendo ovunque l'odio, la violenza e la distruzione. Ma non basta deplorare un'evoluzione così inquietante né basta scaricare la colpa sull'Altro, chiunque egli sia. Dobbiamo cercare di domare la pantera identitaria prima che ci divori. E, per iniziare, è essenziale che la osserviamo con attenzione.
(Amin Maalouf: L'identità - Bompiani 2009).
Il crollo delle ideologie ci ha lasciati orfani di una conformità del pensiero , di conseguenza ci siamo aggrappati a ciò sembrava più a portata di mano, il senso rassicurante di un'appartenenza religiosa, culturale o etnica, magari a volte nemmeno fondata su basi troppo solide, ma che ci garantisce la possibilità di rinchiuderci all'interno di un fortino inattaccabile, al sicuro da ogni minaccia di messa in discussione, segno di una debolezza che caratterizza la paura del confronto, della contaminazione e del cambiamento, dimenticando che lo sviluppo culturale si basa proprio sulle contaminazioni, gli scambi, i contatti con quanti sono altro da noi.

giovedì 15 settembre 2011

Della morte e la sua negazione

Nella civiltà Maya chi vinceva alla pelota riceveva come premio il privilegio di venire sacrificato agli dei. In un mondo in cui il rischio di morire di diarrea era immenso, era un grande onore morire da eroi. La morte si sublima nell'eroismo. Oggi nessuno vuole più morire da eroe, perché le chance di vivere a lungo sono grandi. Da qui anche la crisi della religione. La gente non si interroga più sull'aldilà, ma sul come conservarsi, come mantenersi giovane. Io dico che la gente non parla più di Dio e della morte, ma della pensione.
Prima la morte di una persona era un fatto corale. Moriva uno e i vicini di casa assistevano, aiutavano, ognuno faceva così un'esperienza della morte. Oggi è il contrario, la morte viene celata, nascosta, nessuno sa più gestirla, sa cosa fare dinanzi ad un morto. I vicini scappano, non partecipano. Prima un ragazzo faceva spesso l'esperienza della morte, oggi uno può arrivare alla propria senza mai aver visto quella altrui.
Prima uno dall'ospedale veniva portato a casa a morire. Ora è il contrario, la famiglia porta uno a morire all'ospedale perché nessuno sa cosa fare col morto.
Nota dal diario di Tiziano Terzani, 25 agosto 1992.
(Tiziano Terzani – Tutte le opere Vol. 1° - I Meridiani, Mondadori)



giovedì 8 settembre 2011

Interregno

"Per mascherare il collasso si fece dare un cannocchiale (...) e si mise a guardare verso il nord appoggiando i gomiti al parapetto, ciò che lo aiutava a tenersi in piedi. Oh, se almeno i nemici avessero aspettato un poco, sarebbe bastata una settimana perché lui si potesse rimettere, avevano aspettato tanti anni, non potevano tardare ancora qualche giorno, qualche giorno soltanto?
Guardò nel cannocchiale il visibile triangolo di deserto, sperò di non scorgere nulla, che la strada fosse deserta, non ci fosse alcun segno di vita; questo si augurava Drogo dopo aver consumato la vita nell'attesa del nemico."
(Dino Buzzati - Il deserto dei tartari - Mondadori 1963).

Il '900 è definito il secolo breve, nel senso che sarebbe cominciato nel 1914 con la prima guerra mondiale e terminato nel 1989 con il crollo del muro di Berlino e la conseguente implosione del mondo comunista. Verrebbe da pensare che oggi siamo nel pieno di un nuovo secolo, una nuova era nella quale la Storia inizia un nuovo corso. Ma è davvero così? O dobbiamo invece considerare il periodo che va dal 1990 all'undici settembre 2001 come una sorta di interregno dove l'Occidente, come potenza superstite accarezzava il sogno di dominare la scena mondiale una volta sgombrato il campo da ogni minaccia sostanziale?
E cosa è successo davvero l'undici settembre di dieci anni fa? Di sicuro è cambiata la percezione che la potenza americana aveva di se stessa, una potenza invincibile che mai nessuno avrebbe potuto attaccare, meno che mai sul proprio territorio. Ma è davvero quella data a segnare il sorgere di uno scontro di civiltà riproponendo, a distanza di qualche secolo, la contrapposizione tra Cristianità e Islam? Possiamo ancora pensare oggi  che lo scontro è di natura interreligiosa? La cultura islamica, per quanto tenti di contrapporsi, almeno nella sua componente integralista, alla contaminazione culturale con l'Occidente, favorita anche dalla commistione dovuta alla convivenza in qualche modo favorita dal fenomeno dell'immigrazione e la conseguente contaminazione culturale che modifica gli stili di vita di una società sempre più multietnica, sembra, suo malgrado troppo compenetrata con l'Occidente, dal punto di vista economico, più che da quello culturale.
La data del crollo delle Torri Gemelle a New York segna in ogni caso l'inizio della crisi di una visione occidentale di inviolabilità alla quale ha fatto seguito una serie di episodi che hanno portato a una crisi di sistema tale per cui oggi ci troviamo come non mai sull'orlo di un abisso dal quale non riusciamo a vedere la fine.
Ma in tutto questo, visto il declino ineluttabile nel quale l'Occidente sembrerebbe ormai proteso, chi o cosa è in grado di sostituire il blocco fino a ieri dominante nel mondo?
Non saranno le economie emergenti, Cina innanzi tutto, che con il loro sistema granitico di un capitalismo svincolato dai freni di una democrazia che non gli appartiene, riuscirà a imporsi come nuova potenza dominante per il prossimo secolo a venire?