mercoledì 12 dicembre 2012

Anima


E mentre l'essere che si è ricevuto tende a nascondersi, un qualcosa, anima si dovrebbe chiamarlo, tende a uscire dall'interno del recinto. A gran parte della Psicologia e ad altre Scienze Umane o dello Spirito ha procurato una grande tranquillità il prescindere da ciò che a noi sembra di avvertire come “questa” tradizionalmente detta anima. Cui tale sorte è toccata, senza dubbio, per il fatto di essere un presupposto metafisico, una manifestazione della vita incorporea e il sostegno – altrettanto tradizionale – o “conditio sine qua non” della mistica. Per la ragione analitica, la sua esistenza rappresenta un ostacolo: può l'anima, proprio essa, venire tranquillamente sottoposta ad analisi? Il suo concetto è un'altra cosa, può essere analizzato e perfino ricostruito come qualsiasi altro concetto; ma essa, l'anima, come può essere analizzata se non sta, propriamente, in noi, né in altro, e ancor meno in se stessa? Quando mai si è vista un'anima ripiegata in sé? Naturalmente, neanche ciò che si raccoglie in sé o attraverso cui noi ci raccogliamo in noi stessi è mai stato visto, e meno che mai all'interno di quell'indirizzo delle scienze in cui non si punta a vedere. L'anima, però, ha un movimento suo proprio, procede per conto suo e va e viene senza essere notata, o anche essendolo.

E dev'essere per questo suo singolare movimento e per il modo in cui essa lo fa sentire che la scienza preferisce non tenerne conto, dell'anima, giacché anche la psiche si muove senza requie ma con l'aria di stare sempre nello stesso posto, disponibile, statica; soprattutto questo: statica. Non manifesta alcun impulso ad andare oltre se stessa. E non va in estasi nemmeno quando si rannicchia nel subconscio. Sembra disposta a rispondere solo se la si stimola; risponde, insomma, agli stimoli.

E l'anima no; se risponde, è alla chiamata, all'invocazione e persino allo scongiuro, come attestano tante orazioni delle varie religioni tradizionali. Essa pare avere così una stretta parentela con la parola e con alcuni aspetti della musica; fondamento stesso, così ci si presenta, di ogni liturgia.

Di condizione alata e portata a fuggirsene, si comporta come una colomba. Ritorna sempre, finché un giorno scompare portando con sé l'essere che la ospitava. Quando ciò accade si continua così ad attendere che ritorni o che si sia posata in qualche luogo da dove non debba più partire, diventata alla fine una cosa sola con l'essere che si portò via. E che questo andar via sia stato per lei il ritorno definitivo a quel suo luogo di origine verso il quale continuava così tenacemente a fuggire. Ostinata colomba, come la si potrebbe convincere di nulla? Sembra sapere qualcosa che non comunica, che non dice mai perché già così affine alle parole. Non può dirsi, lei, a se stessa. Quando viene a mancare, tutto può continuare come prima nell'essere abbandonato. L'essere che l'ha perduta rimane però fermo, bloccato, in prigione. E nessun segno che non provenga da essa gli vale per orientarsi. Giacché è proprio della prigione togliere ogni orientamento a chi vi finisce. Quando sorprende una lama di luce, una voce, un semplice punto con cui orizzontarsi, il prigioniero respira, spera e, invece di cadere nell'atonia prodotta dall'assenza totale di segni che orientino la sua detenzione, rimane sul chi vive, benché essa non debba terminare che in un giorno già stabilito.

Colui che si desta con essa, con questa sua anima che non è proprietà sua finché egli non dispone di vista e di udito, si libera, si schiude nell'atto di orientarsi senza uscire di sé, lascia la tana del sogno e del non essere: essere e vita si orientano congiuntamente verso dove l'anima li porta. Rinasce. E così colui che si desta con la sua anima non teme nulla. E allorché essa parte lasciandolo in abbandono, apprende qualcosa, se non si spaventa, qualcosa della vocazione estatica dell'anima. Quel volo che nessuna analisi scientifica può raggiungere. (Maria Zambrano, Chiari del bosco, Bruno Mondadori, 2004).



Possesso o consapevolezza dell'anima, condizione necessaria ad orientarsi nel proprio stare al mondo, elemento insondabile e quindi irreale dal punto di vista scientifico o situazione indispensabile per poter udire e vedere e quindi entrare in relazione con il mondo?

domenica 4 novembre 2012

Scienze e natura dell'uomo


Se si pensassero essenze puramente spirituali in un regno di persone consistente solamente di queste ultime, il loro entrare in scena, il lor sostentamento e sviluppo come il loro scomparire (qualunque siano le rappresentazioni che ci si formano anche del retroscena a partire da cui esse entrano in scena e in cui retrocederebbero di nuovo) sarebbero legati a condizioni di tipo spirituale; il loro benessere sarebbe fondato nella loro situazione rispetto al mondo spirituale; il collegamento tra di loro, le azioni delle une sulle altre si compirebbero attraverso mezzi puramente spirituali e gli effetti durevoli delle loro azioni sarebbero di tipo puramente spirituale; il loro stesso retrocedere dal regno delle persone avrebbe il suo fondamento nell'elemento spirituale. il sistema di tali individui verrebbe conosciuto in pure scienze dello spirito. In effetti un individuo nasce, viene sostentato e si sviluppa sul fondamento delle funzioni dell'organismo animale e delle loro relazioni con il corso circostante di natura; il suo sentimento della vita è fondato perlomeno parzialmente in queste funzioni, le sue impressioni sono condizionate dagli organi di senso e dalle loro affezioni da parte del mondo esterno; la ricchezza e la mobilità delle sue rappresentazioni, la forza come pure la direzione dei suoi atti di volontà li troviamo dipendenti in modo molteplice da alterazioni nel suo sistema nervoso. Il suo impulso volontario porta le fibre muscolari a contrarsi, e così un operare verso l'esterno è legato ad alterazioni nei rapporti di situazione delle particelle di massa dell'organismo; successi durevoli delle sue azioni volontarie esistono solo nelle forme di alterazioni all'interno del mondo materiale. Così la vita spirituale di un uomo è una parte, isolabile solo per astrazione, dell'unità psico-fisica di vita quale si presenta un esserci e una vita dell'uomo. Il sistema di queste unità di vita è l'effettualità che costituisce l'oggetto delle scienze storico-sociali. (Wilhelm Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, pp.25-27, Bompiani Milano 2007).



Il dualismo tipico delle scienze naturali, nella concezione occidentale inaugurata con Cartesio e proseguita con l'Illuminismo e il Positivismo, tra la natura biologica dell'uomo spiegabile come fenomeno riconducibile soltanto a processi chimici attraverso i quali le neuroscienze oggi situano il loro fondamento ermeneutico e l'aspetto trascendente ridotto nella sfera della credenza e quindi di competenza puramente teologica, ha causato la netta separazione tra gli elementi costitutivi la natura umana. Il solo considerare gli aspetti biologici concatenati in processi causali determinati da combinazioni date dal patrimonio genetico rende omologabile ciascun uomo al proprio simile in funzione delle possibili varianti che il programma genetico dato ha stabilito in partenza. Perdendo di vista la possibilità di considerare l'essere umano come un essere dotato di qualità immateriali che potremmo definire come spirito, anima, energia universale a seconda dei presupposti dai quali vogliamo considerare la cosa, le scienze naturali e parte delle scienze umane si precludono la via al raggiungimento dell'essenza trascendente di ciascun essere umano come essere unico e irripetibile. Le scienze dello spirito, così come sono definite da Dilthey permettono il superamento dell'esigenza scientifico-naturale di misurare e quantificare i fenomeni allo studio, in quanto entrano nel campo delle infinite variabili contenute nel sistema relazionale insito nell'uomo e nelle sue aggregazioni, cercando di comprendere i fenomeni che accadono sulla base di assunti che non potendo essere assoluti proprio perché non calcolabili, potranno essere sempre perfettibili.

giovedì 11 ottobre 2012

La visione dell'uomo nella psicoanalisi


Dell'esatta estensione della distruzione teoretica della nozione di uomo implicita nel trattamento psicoanalitico di Freud ci facciamo un'idea completa se confrontiamo i dati di fatto, da lui stesso definiti i pilastri fondamentali della sua prassi psicoanalitica, con le basi principali della sua teoria psicoanalitica. Là la 'resistenza' e il 'transfert'; qui l'organo cerebrale materiale con i suoi organi di senso che percepiscono in maniera insufficiente la 'realtà', e una serie lacunosa di atti di coscienza. I fenomeni indicati coi nomi di 'transfert' e 'resistenza' sono fenomeni indicanti relazioni interumane, fenomeni incontestabili ed effettivi. Per contro, né la rappresentazione teorica di atti di una coscienza, né l'idea di un organo cerebrale materiale isolato, corrispondono a una realtà direttamente data. Per non parlare poi del fatto che esse non sono affatto all'origine della nostra percezione dell'uomo, come Freud continuava a ritenere. Entrambe sono invece già astrazioni completamente sospese nell'aria. Sono riduzioni ideali di determinati domini di essenza e di determinati eventi relazionali umani a entità di tipo psichico e fisico rappresentate oggettivamente. Perciò non c'è più neppure una via che riconduca da siffatte rappresentazioni alla piena comprensione di un qualsiasi comportamento umano. Una volta che si sia rappresentato il cervello umano come un organo esistente per sé o come uno strumento materiale, in qual modo potrebbero mai agire su di esso delle entità così immateriali e prive di articolazioni quali sono gli atti coscienti? In qual modo e in qual luogo una coscienza concepita così isolata potrebbe mai dimorare in un organo cerebrale; in che modo quest'organo potrebbe mai diventare un suo 'sostrato', un suo supporto? E come si potrebbe mai concepire l'affermazione che la materia di questo sostrato si volatizza da sé in atti psichici? Anzi, non si potrebbe neppure dire in che modo ciò che viene recepito dai nostri organi sensoriali possa essere trasportato in una coscienza supposta presente in qualche punto di noi e ivi trasformato in atti di coscienza dotati di significato. In realtà, i nostri organi sensoriali, in quanto tali e di per sé, non sono in grado in generale di recepire e di percepire alcunché. Chi percepisce ed è consapevole è invece sempre e soltanto l'essere umano stesso nella sua totalità. Ma allora come potrebbero i nostri organi sensoriali possedere anche “specifiche facoltà di ricezione” in conseguenza delle quali il “congetturato stato di cose reale” verrebbe mascherato in modo che noi dovremmo, ovvero potremmo soltanto, affrontarlo solo successivamente e per mezzo di complicate ipotesi dinamiche ed economiche?
Se l'uomo, con tutto il suo mondo, fosse effettivamente costituito nel modo in cui Freud, conformemente al pensiero naturalistico-scientifico dell'epoca, continuò a teorizzarlo, cioè semplicemente da meccanismi somato-psichici originariamente isolati, come quello di un telescopio, e da entità del mondo esterno; insomma, da un agglomerato di oggetti puramente-presenti e originariamente separati, non potremmo mai sperare di percepire, per non dire di capire, neppure una relazione così semplice come l'essere-di-fronte di un oggetto per un soggetto o il mio poter-incontrare un altro uomo. Tanto meno si potrebbe realmente comprendere in che modo uno possa incorrere in uno stato di 'transfert' affettivo o di intensa 'resistenza' nei riguardi del suo analista, e da costui, stando dentro un siffatto 'scenario' di collaborazione interumana, essere curato e guarito. Non si sono mai visti, infatti, meccanismi di qualunque tipo siano, che percepiscano alcunché o addirittura si amino e si odino mutuamente. Per fortuna, tutta questa automutilazione teoretica di Freud ebbe un ruolo principale soltanto nei suoi libri; nella pratica del suo lavoro, invece, Freud non cessò mai di considerare i suoi pazienti come uomini globali, né li trattò mai, ivi, come telescopi o come fasci di istinti, come pure avrebbe dovuto propriamente fare se si fosse attenuto alla sua teoria.

Medard Boss, Psicoanalisi e Analitica esistenziale, Astrolabio, Roma 1973.

domenica 7 ottobre 2012

Libertà


Dato che nella lotta moderna per la libertà l'attenzione era assorbita dalla battaglia contro le vecchie forme di autorità e costrizione, era naturale pensare che eliminando il maggior numero possibile di queste costrizioni tradizionali la libertà sarebbe aumentata proporzionalmente. Tuttavia, non ci rendiamo sufficientemente conto del fatto che l'uomo, pur essendosi sbarazzato dei vecchi nemici della libertà, se ne trova dinanzi di nuovi di diversa natura; nemici che non sono fondamentalmente costrizioni esterne, ma fattori interni, che bloccano la piena realizzazione della libertà della personalità. Crediamo, ad esempio, che la libertà di culto costituisca una delle vittorie decisive ai fini della libertà. Non ci rendiamo sufficientemente conto che, pur trattandosi di una vittoria contro quei poteri della Chiesa e dello Stato che non consentivano all'uomo di praticare il culto che gli dettava la sua coscienza, l'individuo dei tempi moderni ha perduto in gran misura la capacità interiore di aver fede in qualcosa che non sia dimostrabile per mezzo dei metodi delle scienze naturali. Oppure, per scegliere un altro esempio, riteniamo che la libertà di parola sia l'ultimo passo della marcia vittoriosa della libertà. Dimentichiamo che, quantunque la libertà di parola costituisca un'importante vittoria nella battaglia contro le vecchie costrizioni, l'uomo moderno si trova in una situazione in cui gran parte di ciò che «egli» pensa e dice consiste in cose che tutti gli altri pensano e dicono; e che egli non ha acquistato la capacità di pensare originalmente – cioè con la propria testa – cosa che dà significato alla sua pretesa che nessuno debba interferire nell'espressione dei suoi pensieri. Siamo pure orgogliosi che nella sua condotta di vita l'uomo sia diventato libero da autorità esterne, che gli dicano che cosa fare e che cosa non fare. Trascuriamo il ruolo delle autorità anonime, come l'opinione pubblica e il «senso comune», le quali sono tanto potenti a causa della nostra profonda disposizione a conformarci a quello che tutti si attendono da noi, e a causa della nostra egualmente profonda paura di essere diversi. In altre parole, restiamo incantati di fronte allo sviluppo della libertà da forze esterne a noi, ma restiamo ciechi di fronte alla realtà delle costrizioni, dei freni e dei timori interni, che tendono a minare il significato delle vittorie che la libertà ha riportato contro i suoi tradizionali nemici. Perciò siamo portati a pensare che il problema della libertà sia esclusivamente quello di conquistare ancor più libertà del tipo che abbiamo conquistato nel corso della storia moderna, e a credere che tutto ciò che occorre sia difenderla da quei poteri che negano una libertà siffatta. Dimentichiamo che, quantunque ognuna delle libertà che abbiamo conquistato debba esser difesa con estremo vigore, il problema della libertà non è solo quantitativo ma anche qualitativo; che non solo dobbiamo conservare e accrescere la libertà tradizionale, ma che dobbiamo conquistare un nuovo tipo di libertà, che ci consenta di realizzare la nostra personalità individuale, di aver fede in essa e nella vita.


Fuga dalla libertà, pp. 92-93, E. Fromm, Mondadori, Milano 2012.

giovedì 4 ottobre 2012

Sapere e conoscenza


È inevitabile accettare il fatto che se consideriamo quest’ultimo periodo, lo troviamo pieno di scienza e conoscenza pura: di conoscenza applicata alla tecnica e alla fabbricazione di strumenti, ma povero, immensamente povero, di tutte le forme attive di conoscenza. E per attive intendiamo quelle che nascono dal desiderio di penetrare nel cuore umano, quelle che si fanno carico di diffondere idee fondamentali come ispiratrici nella vita quotidiana dell’uomo comune che non è, ne pretende di essere filosofo o saggio.
Forme creatrici che non scoprono ne indagano, bensì trasformano ciò che è stato indagato e scoperto, idee vigenti, ossia attive. […]
La vita ha bisogno di pensiero, ma ne ha bisogno perché non può preservare lo stato in cui spontaneamente si produce. Non basta infatti nascere una volta e muoversi in un mondo di strumenti utili. La vita umana chiede di essere sempre trasformata, il pensiero vaga abbandonato se non trasforma la vita, se non è accolto e accettato, patrimonio solo di coloro che sono stati capaci di scoprirlo.
Maria Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina, Milano 1996.





Se devo pensare a un aggettivo che caratterizzi il vivere comune di questi tempi, questo è: "superficiale".
Nel senso che tutto ciò che ci viene incontro oggi è attraversato da uno sguardo che sfiora la superficie delle cose senza il tempo o il bisogno di penetrare nella vera essenza di ciò che ci appare come fenomeno. Apparentemente abbiamo la presunzione di sapere tutto a proposito di ciò che ci circonda, bersagliati come siamo da una infinità di informazioni che non ci concedono la possibilità di una riflessione approfondita degli eventi che ci accadono. In realtà finiamo per non sapere niente di ciò che abbiamo intorno proprio perché ci accontentiamo di un sapere fittizio, fatto di frasi riportate, di immagini sfuggenti, di rimandi di opinioni che altri confezionano per noi, pensando in nostra vece.
Il "sapere di non sapere" socratico era espressione di estrema umiltà di un vero sapiente, il nostro "sapere di ogni cosa" è espressione vana di un'estrema presunzione vacua.

sabato 29 settembre 2012

Intersoggettività e relazione


Siamo sulla via giusta per determinare l'essenza dell'uomo se e finché consideriamo l'uomo come un essere vivente tra gli altri, che si distingue rispetto alle piante, agli animali e a Dio? Si può procedere così, si può cioè in tal modo situare l'uomo all'interno dell'ente e considerarlo come un ente tra gli altri. Così facendo si potranno sempre fare asserzioni corrette sull'uomo. Ma si deve anche avere ben chiaro che così l'uomo è definitivamente cacciato nell'ambito dell'essenza dell'animalitas, anche quando non lo si assimila all'animale, ma gli si riconosce una differenza specifica. In linea di principio si pensa sempre all'homo animalis anche quando l'anima è posta come animus sive mens, e quindi come soggetto, come persona, come spirito. Questo modo di porre è il modo tipico della metafisica. Ma così l'essenza dell'uomo è stimata troppo poveramente, e non è pensata nella sua provenienza, una provenienza essenziale che per l'umanità storica resta sempre il futuro essenziale. La metafisica pensa l'uomo a partire dall'animalitas, e non pensa in direzione della sua humanitas.
La metafisica si chiude di fronte al semplice fatto essenziale che l'uomo si dispiega solo nella sua essenza in quanto è chiamato dall'essere. Solo a partire da questa chiamata, l'uomo “ha” trovato dove la sua essenza abita. Solo a partire da questo abitare egli “ha” il linguaggio come dimora che conserva alla sua essenza il carattere estatico. []
Ne consegue che di e-sistenza si può parlare solo in relazione all'essenza dell'uomo, cioè solo in relazione al modo umano di “essere”; perché solo l'uomo, per quanto ne abbiamo esperienza, è coinvolto nel destino dell'e-sistenza. Perciò l'e-sistenza non può mai essere pensata come una specie particolare tra le altre specie di viventi, dato che l'uomo è destinato a pensare l'essenza del suo essere, e non solo a raccontare storie naturali e storiche sulla sua costituzione e la sua attività. (M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, Adelphi, Milano, 1987, pp.276-277).

Un avvicinamento interumano, dove non c'è la contrapposizione soggetto-oggetto, ma un insieme di relazioni, perché l'oggetto si risolve nel significato che esso assume per l'Io, e l'Io nell'oggetto in cui la sua intenzionalità emotiva si evidenzia. (K. Jaspers, Psicologia generale, Il Pensiero Scientifico, Roma 2000, p.244 ).

Il linguaggio che definisce l'uomo nella sua essenza cos'altro è se non relazione? Possiamo quindi affermare che nella relazione “abita” l'essere dell'uomo in quanto essenza intersoggettiva. Relazione che si pone in essere tra soggetti che si riconoscono e si identificano nel rapporto Io-Tu scavalcando l'oggettivazione dell'altro, diventato a sua volta l'Io me stesso contrapposto ad un altro Io in quanto essere identico a me, co-soggetto esperito nella relazione. Relazione che si intenziona sulla base di codici non solo appartenenti al linguaggio comune, ma anche e soprattutto, attraverso un medesimo sentire fondato sull'humanitas, la quale apre una possibilità ulteriore di relazione fondata su ciò che definiamo empatia.

mercoledì 12 settembre 2012

Identità, relazione e Infinito


In realtà il «chi è?» non è una domanda e non è soddisfatto da un sapere. Quello cui è posta la domanda, si è già presentato, senza essere un contenuto. Si è presentato come volto. Il volto non è una modalità della quiddità una risposta ad una domanda, ma è correlativo a ciò che precede ogni domanda. ciò che precede ogni domanda non è, a sua volta, una domanda, né una conoscenza posseduta a priori, ma Desiderio. Il chi correlativo al Desiderio, il chi cui è posta la domanda è, in metafisica, una «nozione» fondamentale ed universale nella stessa misura in cui lo sono la quiddità, l'essere, l'ente e le categorie.
Certo, il chi è per lo più un che cosa. Si domanda «chi è il signor X» e si risponde: «È il presidente del Consiglio di Stato» o «È il signor Tale». La risposta si offre come quiddità, si riferisce a un sistema di relazioni. Alla domanda chi? risponde la presenza non qualificata di un ente che si presenta senza riferirsi a niente e che, però, si distingue da ogni altro ente. La domanda chi? tende ad un volto. La nozione di volto differisce da qualsiasi contenuto rappresentato. Se la domanda chi non domanda nello stesso senso della domanda che cosa, questo significa che in questo caso ciò che si domanda e chi è interrogato coincidono. Tendere ad un volto, significa porre la domanda chi proprio al volto che costituisce la risposta a questa domanda. Chi risponde e ciò che è risposto coincidono. Il volto, espressione per eccellenza, formula la parola fondamentale: il significante che viene alla luce al culmine del suo segno, come degli occhi che vi fissano.
Il chi dell'attività non è espresso nell'attività, non è presente, non assiste alla propria manifestazione, ma vi è semplicemente significato da un segno in un sistema di segni, cioè come un essere che si manifesta appunto in quanto assente dalla propria manifestazione: una manifestazione in assenza dell'essere-un fenomeno. Quando si comprende l'uomo a partire dalle sue opere, esso è più sorpreso che compreso. La sua vita e il suo lavoro lo nascondono. Simboli, essi rimandano all'interpretazione. La fenomenicità di cui si tratta non indica semplicemente una relatività della conoscenza; ma un modo d'essere in cui nulla è definitivo, in cui tutto è segno, presente che si assenta dalla sua presenza e, in questo senso, sogno.
(…)
Soltanto andando incontro ad Altri sono presente a me stesso. Non è che la mia esistenza si costituisca nel pensiero degli altri. Una esistenza cosiddetta oggettiva, quale si riflette nel pensiero degli altri, e in base alla quale faccio parte dell'universalità, dello Stato, della storia, della totalità, non mi esprime ma appunto mi nasconde. Il volto che accolgo mi fa passare dal fenomeno all'essere in un altro senso: nel discorso mi espongo all'interrogazione d'Altri e questa urgenza della risposta-stimolo acuto del presente-mi genera alla responsabilità; in quanto responsabile sono ricondotto alla mia realtà ultima. Questa attenzione estrema non attualizza quello che era in potenza, poiché essa non è concepibile senza l'Altro. Essere attenti significa un sovrappiù di coscienza che presuppone l'appello dell'Altro. Essere attenti significa riconoscere la signoria dell'Altro, ricevere il suo ordine o più esattamente ricevere da lui l'ordine di dare ordini. La mia esistenza come «cosa in sé» inizia con la presenza in me dell'idea dell'Infinito, quando mi cerco nella mia realtà ultima. Ma questo rapporto consiste già nel servire Altri.
Emmanuel Lévinas: Totalità e infinito - Jaca Book (pp. 181-184 )

venerdì 7 settembre 2012

Nome essenza dell'Io


Nome essenza dell'Io


Io ho un nome o sono un nome?
Qual è l'elemento che identifica la mia essenza?
Il mio apparire come fenomeno che si intenziona di fronte a un Tu oggettivante o il mio essere ontico, il mio Io in sé esistente per se stesso in quanto ente pensante?
Mi è sufficiente il Cogito ergo sum per dirmi Io o devo definirmi attraverso un fonema che esprima ciò che mi contraddistingue?
Il mio chiamarmi/chiamare me come Roberto definisce la mia essenza o il nome è soltanto un'etichetta che altri, i miei genitori, mi hanno consegnato a suo tempo?
Sarei diverso oggi se mi fossi chiamato Giuseppe o Andrea?
Mi sento diverso se qualcuno, scherzosamente o involontariamente storpia chiamandomi, il mio nome?
Chi sono io se devo definirmi? Con chi parlo quando parlo a me stesso? A chi mi rivolgo quando mi parlo, magari in uno specchio o attraverso i miei pensieri?
La risposta forse, non è nella definizione di me attraverso il nome ma il nome stesso, che chiamandomi a sua volta, definisce il Me ponendolo in relazione all'altro: Tu o alter ego che sia, in ogni caso l'ente intenzionato che mi è di fronte, in quanto essere altro in relazione con me.
Il nome quindi come possibilità di relazione che mi permette di entrare in contatto con la mia essenza attraverso l'oggetto, il Tu, del mio essere definito. Un Tu che mi oggettiva ponendosi come soggetto e oggettivato a sua volta da me che gli sto di fronte identificato attraverso il nome, proprio o attribuito.
In una parola, possiamo dire che il nome è relazione, di conseguenza è la relazione che mi identifica come Io oggettivato nel rapporto con l'altro e quindi mi definisce.

sabato 25 agosto 2012

L'identificazione dell'Io nella relazione con il Tu


Si potrebbe dire che l'Io è per il fatto di pensarsi. Ovvero ancora cogito ergo sum. Così esso diviene identità di pensare ed essere: è perché si pensa e si pensa perché è; e anche all'identità tra soggetto e oggetto: è il soggetto che, nell'atto di pensarsi, è al tempo stesso il proprio oggetto. Si faccia però anche attenzione al fatto che la proposizione «Io sono» non può di per sé essere pensata senza parole, ovvero senza una relazione magari ideale con il Tu – sebbene l'Io che si pensa e che esprime la propria esistenza non è chiaramente consapevole di tale relazione o magari non lo è affatto – proprio per il fatto che l'Io non esiste al di fuori di tale relazione. Se davvero viene pensata senza parole, allora non si tratta della proposizione stessa, bensì del principio di identità nella sua sottrazione e mancanza di oggetto. Si pensa il pensiero senza un oggetto cui si riferirebbe, ovvero l'Io si pensa in maniera assoluta senza in ciò capire se stesso. Può infatti capirsi solo nella relazione con il Tu. Questo non è di certo l'Io reale ma è – dato che pensa se stesso, che pensando si riferisce a se stesso e si rende dunque «oggetto» - il moi di Pascal divenuto astratto, il mio-a-me, l'Io che esiste nel «solipsismo dell'Io» di un mero pensiero. L'Io reale esiste in un rapporto con il Tu, anche il moi di Pascal, che è qualcosa di oltremodo concreto, che esiste nella sua chiusura di fronte al Tu ma comunque sempre in rapporto, seppur negativo, con il Tu. Il vero Io esiste laddove e quando si muove verso il Tu; non nell'«Io-solipsismo» del suo pensiero che sempre di nuovo si genera e si ingloba e nel quale pensa se stesso; bensì soggettivamente nell'amore – nel quale riceve senso e direzione la sua intima realtà dell'«Io voglio» e della quale l'Io intellegibile dell'etico nulla sa – oggettivamente però non altrove se non nella parola, non per il fatto che si pensa ma invece che si esprime. La parola e l'amore sono i veicoli autentici del suo rapporto e del suo «movimento» verso il Tu.”

Ferdinand Ebner: Frammenti Pneumatologici – Frammento 10. Ed. S. Paolo 1998

domenica 26 febbraio 2012

Umanità e natura

Dio disse: «Facciamo l'uomo: sia simile a noi, sia la nostra immagine. Dominerà sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, sugli animali selvatici e su quelli che strisciano al suolo». Dio creò l'uomo simile a sé, lo creò a immagine di Dio, maschio e femmina li creò. Li benedisse con queste parole: «Siate fecondi, diventate numerosi, popolate la terra. Governatela e dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su tutti gli animali che si muovono sulla terra». (Genesi – 1,26-28)









Il futuro dell'umanità costituisce il primo dovere del comportamento umano collettivo nell'era della civiltà tecnica divenuta, modo negativo, «onnipotente». In esso è evidentemente incluso il futuro della natura in quanto condizione sine-qua-non; ma, anche indipendentemente da ciò, si tratta di una responsabilità metafisica in sé e per sé, dal momento in cui l'uomo è diventato un pericolo non soltanto per se stesso, ma per l'intera biosfera. Persino se i due aspetti fossero separabili, ossia anche se in un ambiente di vita devastato (e in gran parte ricostruito artificialmente) fosse possibile per i nostri discendenti una vita nominalmente umana, la pienezza vitale della terra, prodottasi nel corso di un lungo processo creativo della natura e adesso affidato a noi, avrebbe di per se stessa diritto alla nostra tutela. Ma poiché i due aspetti non sono in effetti separabili, se non a prezzo di una caricatura dell'immagine dell'uomo, - poiché nel punto decisivo e cioè davanti all'alternativa: «conservazione oppure distruzione», l'interesse dell'uomo coincide nel senso più sublime con quello del resto della vita in quanto sua dimora cosmica, - possiamo trattare entrambi i doveri come se fossero uno solo, ricorrendo al concetto guida di dovere verso l'uomo, senza per questo cadere in una visione riduttiva antropocentrica. L'esclusiva fissazione sull'uomo in quanto diverso dal resto della natura può significare solo immiserimento, anzi disumanizzazione dell'uomo stesso, atrofia del suo essere anche nel caso fortunato della conservazione biologica, il che dunque contraddice il suo fine dichiarato, sanzionato proprio dalla dignità del suo essere. In un'ottica veramente umana rimane alla natura la sua dignità propria, che si contrappone all'arbitrio del nostro potere. In quanto da lei generati, siamo debitori, verso la totalità a noi prossima delle sue creature, di una dedizione di cui quella verso il nostro essere costituisce soltanto la punta più elevata. Ma questa, correttamente intesa, comprende in sé tutto il resto (Hans Jonas - Il principio responsabilità - Piccola Biblioteca Einaudi).


La civiltà occidentale, figlia della cultura giudaico-cristiana ha sempre considerato la natura come altro da sé rispetto all'uomo in quanto essere preposto al dominio della stessa presupponendo l'autorità consegnatagli da Dio in funzione dell'essere creato a Sua immagine e somiglianza. Da qui il concetto, latente nell'età moderna ma sviluppatosi in misura abnorme dall'epoca della rivoluzione industriale spronata dal positivismo,  che ha giustificato lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali senza prendere in considerazione la possibilità che le stesse potessero esaurirsi in un futuro prossimo, dimostrando una cecità causata dalla sete di profitto. 
Quello a cui assistiamo oggi è un fenomeno sempre più marcato di pericolo della mancanza di risorse aggravato dal fatto che lo sviluppo della condizione vitale dell'uomo si trova ad essere sempre più dipendente dalla tecnica senza la quale la civiltà non soltanto occidentale inevitabilmente ormai risulta dipendente.
A questo punto, viste le difficoltà dovute alla non troppo lontana possibilità che le risorse energetiche possano esaurirsi, è ancora possibile ipotizzare un futuro per l'umanità che prescinda dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse stesse, innescando un circolo virtuoso che riesca a ridurre in misura considerevole lo sfruttamento della natura in modo da riequilibrare, per ciò che ancora è possibile, il rapporto con l'ambiente che ci circonda? Tutto questo è utopia oppure è utopico il pensare che le risorse alle quali attingiamo quotidianamente potranno soddisfare in eterno i nostri bisogni?

sabato 18 febbraio 2012

Oriente Occidente

L'Occidente è la cultura intesa come scienza, cioè come conoscenza del mondo attorno all'io, mentre l'io è solo strumento e luogo di pensiero; ne derivano le scienze della natura e dell'osservazione. L'Oriente invece vuol dire cultura in quanto ricerca dell'io pensante, il pensiero inteso come pensiero dell'io che pensa se stesso perché l'io non è parte del tutto, ma il tutto. Il distinguere è illusione, il tutto, l'assoluto, è verità. Cercare di distinguere è la via dell'errore. In queste due direzioni il mondo s'è mosso per secoli arrivando a questo pauroso abisso di oggi in cui da una parte c'è l'io che ha dimenticato se stesso nella conoscenza dell'attorno, anzi è diventato schiavo del conosciuto – la civiltà della macchina e la fine dell'umanesimo -; dall'altra parte c'è l'io che ha raggiunto profondità ricchissime e forme di cultura avanzate, ma che, avendo dimenticato la conoscenza dell'attorno, ora muore di fame e ancora di peste e di lebbra. (Pensiero di padre Sandro Bencivenni, domenicano in Kyoto nel 1965, riportato da Tiziano Terzani nel volume “In Asia”).
Tenendo conto della datazione del pensiero sopra citato e nella consapevolezza che l'Asia di oggi non è certo quella degli anni '60, restano comunque due concezioni dell'uomo visibilmente in antitesi e dalle quali sembra difficile trarre una sintesi. L'io occidentale proiettato verso il conosciuto del quale è diventato schiavo non senza aver prima coinvolto e trascinato con sé grosse parti dell'Oriente odierno contrapposto a una concezione dell'io significativamente più autoriflessiva tipicamente orientale e che oggi appare presente in maniera trasversale e nemmeno troppo elitaria e sporadica anche in alcuni strati della cultura occidentale. Che sia forse questa la sintesi che riesce a dare un senso a tutto ciò?

giovedì 26 gennaio 2012

Vendetta o perdono

La vendetta è un piatto che si serve freddo...
La miglior vendetta è il perdono...

Saggezza popolare curiosamente contraddittoria, quasi ad indicare che il buon senso a volte spiega tutto e il suo contrario e forse anche per questo riesce spesso a trovare spiegazioni adattabili alla realtà del nostro vivere.
Ma quali sono gli istinti che ci portano al bisogno di sanare le ferite che l'altro ci può infliggere attraverso il reiterare quelle stesse ferite verso chi ci offende? Sono davvero lenitive le sofferenze altrui qualora fossero esse stesse causa delle nostre? E non esiste il pericolo che tutto questo rimandare di azioni rivendicative reiterate non porti all'innesco di una spirale auto alimentata dalla quale è impossibile uscire?
Le ferite che l'altro ci infligge o meglio, che riesce a sfiorare attraverso comportamenti per noi significanti sulla base dei nostri vissuti negativi che emergono nel momento in cui vengono toccati nervi scoperti che ancora non siamo riusciti a risolvere e affrontare, ci porta reagire in modo spesso violento ributtando addosso al nostro nemico tutta la violenza di cui siamo capaci moltiplicando spesso l'entità di quanto ricevuto. Il tutto in nome di un appagamento soltanto fittizio, in quanto frutto di una sofferenza inflitta che non potrà mai ripagare l'offesa subita che comunque resta, in quanto ferita non rimarginata, dentro di noi. La vendetta è portatrice quindi di una sofferenza non ripagata, alimentata ulteriormente da altra sofferenza che genererà a sua volta altra violenza in una coazione a ripetere che non troverà soluzione se non nella frustrazione del non essere appagata.
Altra cosa è il perdono. E non mi riferisco qui al perdono di matrice cristiana, al porgere l'altra guancia in un senso di remissività che porti all'annullamento della personalità della figura offesa, la quale si annulla e quasi si compiace della sua magnanimità legittimata dall'ampiezza del valore intrinseco della sofferenza subita.
Mi riferisco invece alla possibilità della comprensione quale pratica dell'agire nella relazione, dove comprendere significa prendere insieme, considerando analiticamente le ragioni di un agire anche violento che si rivolge contro di noi per ragioni che con noi hanno poco a che vedere, spinto probabilmente da un vissuto nel quale le ferite patite provengono da un luogo che l'agente stesso fatica a riconoscere. A questo punto l'atteggiamento comprensivo dovrebbe essere in grado di sospendere il giudizio e l'azione responsiva in nome di un'analisi delle vere ragioni che possono aver spinto il nostro interlocutore ad agire in quel modo. Lo sforzo, e qui sta tutta la difficoltà di un agire così fuori dagli schemi, dovrebbe essere appunto quello di andare incontro all'altro superando o almeno mettendo in sospensione quelle che sono le nostre ferite, toccate dalle offese ricevute, come se fossimo per un attimo riusciti a spalmare un balsamo coprente sulle nostre lacerazioni interiori. Soltanto così potremo spezzare la spirale vendicativa che altrimenti si innescherebbe in caso di una nostra risposta altrettanto violenta. La ricerca delle ragioni dell'altro, per quanto lontane dal nostro pensare, possono avere una logica insospettata ma coerente, se vista da un punto di osservazione differente, consapevoli, nel nostro comprendere, che ciascun punto di vista è comunque e sempre la vista da un punto.