giovedì 26 gennaio 2012

Vendetta o perdono

La vendetta è un piatto che si serve freddo...
La miglior vendetta è il perdono...

Saggezza popolare curiosamente contraddittoria, quasi ad indicare che il buon senso a volte spiega tutto e il suo contrario e forse anche per questo riesce spesso a trovare spiegazioni adattabili alla realtà del nostro vivere.
Ma quali sono gli istinti che ci portano al bisogno di sanare le ferite che l'altro ci può infliggere attraverso il reiterare quelle stesse ferite verso chi ci offende? Sono davvero lenitive le sofferenze altrui qualora fossero esse stesse causa delle nostre? E non esiste il pericolo che tutto questo rimandare di azioni rivendicative reiterate non porti all'innesco di una spirale auto alimentata dalla quale è impossibile uscire?
Le ferite che l'altro ci infligge o meglio, che riesce a sfiorare attraverso comportamenti per noi significanti sulla base dei nostri vissuti negativi che emergono nel momento in cui vengono toccati nervi scoperti che ancora non siamo riusciti a risolvere e affrontare, ci porta reagire in modo spesso violento ributtando addosso al nostro nemico tutta la violenza di cui siamo capaci moltiplicando spesso l'entità di quanto ricevuto. Il tutto in nome di un appagamento soltanto fittizio, in quanto frutto di una sofferenza inflitta che non potrà mai ripagare l'offesa subita che comunque resta, in quanto ferita non rimarginata, dentro di noi. La vendetta è portatrice quindi di una sofferenza non ripagata, alimentata ulteriormente da altra sofferenza che genererà a sua volta altra violenza in una coazione a ripetere che non troverà soluzione se non nella frustrazione del non essere appagata.
Altra cosa è il perdono. E non mi riferisco qui al perdono di matrice cristiana, al porgere l'altra guancia in un senso di remissività che porti all'annullamento della personalità della figura offesa, la quale si annulla e quasi si compiace della sua magnanimità legittimata dall'ampiezza del valore intrinseco della sofferenza subita.
Mi riferisco invece alla possibilità della comprensione quale pratica dell'agire nella relazione, dove comprendere significa prendere insieme, considerando analiticamente le ragioni di un agire anche violento che si rivolge contro di noi per ragioni che con noi hanno poco a che vedere, spinto probabilmente da un vissuto nel quale le ferite patite provengono da un luogo che l'agente stesso fatica a riconoscere. A questo punto l'atteggiamento comprensivo dovrebbe essere in grado di sospendere il giudizio e l'azione responsiva in nome di un'analisi delle vere ragioni che possono aver spinto il nostro interlocutore ad agire in quel modo. Lo sforzo, e qui sta tutta la difficoltà di un agire così fuori dagli schemi, dovrebbe essere appunto quello di andare incontro all'altro superando o almeno mettendo in sospensione quelle che sono le nostre ferite, toccate dalle offese ricevute, come se fossimo per un attimo riusciti a spalmare un balsamo coprente sulle nostre lacerazioni interiori. Soltanto così potremo spezzare la spirale vendicativa che altrimenti si innescherebbe in caso di una nostra risposta altrettanto violenta. La ricerca delle ragioni dell'altro, per quanto lontane dal nostro pensare, possono avere una logica insospettata ma coerente, se vista da un punto di osservazione differente, consapevoli, nel nostro comprendere, che ciascun punto di vista è comunque e sempre la vista da un punto.

1 commento:

  1. Posta così pare molto retorica, nessuno mai, nè saggio, nè colto, nè equilibrato com-prenderebbe chi lo ferisce. Prendere con sè, comprendere non sarebbe bontà o elevazione, vedo meglio una fuga qualora la ferita non possa essere gestita... Del resto, negarsi non è infliggere spesso una punizione per vendetta, senza dover affrontare violenze o conflitti?

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