sabato 29 settembre 2012

Intersoggettività e relazione


Siamo sulla via giusta per determinare l'essenza dell'uomo se e finché consideriamo l'uomo come un essere vivente tra gli altri, che si distingue rispetto alle piante, agli animali e a Dio? Si può procedere così, si può cioè in tal modo situare l'uomo all'interno dell'ente e considerarlo come un ente tra gli altri. Così facendo si potranno sempre fare asserzioni corrette sull'uomo. Ma si deve anche avere ben chiaro che così l'uomo è definitivamente cacciato nell'ambito dell'essenza dell'animalitas, anche quando non lo si assimila all'animale, ma gli si riconosce una differenza specifica. In linea di principio si pensa sempre all'homo animalis anche quando l'anima è posta come animus sive mens, e quindi come soggetto, come persona, come spirito. Questo modo di porre è il modo tipico della metafisica. Ma così l'essenza dell'uomo è stimata troppo poveramente, e non è pensata nella sua provenienza, una provenienza essenziale che per l'umanità storica resta sempre il futuro essenziale. La metafisica pensa l'uomo a partire dall'animalitas, e non pensa in direzione della sua humanitas.
La metafisica si chiude di fronte al semplice fatto essenziale che l'uomo si dispiega solo nella sua essenza in quanto è chiamato dall'essere. Solo a partire da questa chiamata, l'uomo “ha” trovato dove la sua essenza abita. Solo a partire da questo abitare egli “ha” il linguaggio come dimora che conserva alla sua essenza il carattere estatico. []
Ne consegue che di e-sistenza si può parlare solo in relazione all'essenza dell'uomo, cioè solo in relazione al modo umano di “essere”; perché solo l'uomo, per quanto ne abbiamo esperienza, è coinvolto nel destino dell'e-sistenza. Perciò l'e-sistenza non può mai essere pensata come una specie particolare tra le altre specie di viventi, dato che l'uomo è destinato a pensare l'essenza del suo essere, e non solo a raccontare storie naturali e storiche sulla sua costituzione e la sua attività. (M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, Adelphi, Milano, 1987, pp.276-277).

Un avvicinamento interumano, dove non c'è la contrapposizione soggetto-oggetto, ma un insieme di relazioni, perché l'oggetto si risolve nel significato che esso assume per l'Io, e l'Io nell'oggetto in cui la sua intenzionalità emotiva si evidenzia. (K. Jaspers, Psicologia generale, Il Pensiero Scientifico, Roma 2000, p.244 ).

Il linguaggio che definisce l'uomo nella sua essenza cos'altro è se non relazione? Possiamo quindi affermare che nella relazione “abita” l'essere dell'uomo in quanto essenza intersoggettiva. Relazione che si pone in essere tra soggetti che si riconoscono e si identificano nel rapporto Io-Tu scavalcando l'oggettivazione dell'altro, diventato a sua volta l'Io me stesso contrapposto ad un altro Io in quanto essere identico a me, co-soggetto esperito nella relazione. Relazione che si intenziona sulla base di codici non solo appartenenti al linguaggio comune, ma anche e soprattutto, attraverso un medesimo sentire fondato sull'humanitas, la quale apre una possibilità ulteriore di relazione fondata su ciò che definiamo empatia.

mercoledì 12 settembre 2012

Identità, relazione e Infinito


In realtà il «chi è?» non è una domanda e non è soddisfatto da un sapere. Quello cui è posta la domanda, si è già presentato, senza essere un contenuto. Si è presentato come volto. Il volto non è una modalità della quiddità una risposta ad una domanda, ma è correlativo a ciò che precede ogni domanda. ciò che precede ogni domanda non è, a sua volta, una domanda, né una conoscenza posseduta a priori, ma Desiderio. Il chi correlativo al Desiderio, il chi cui è posta la domanda è, in metafisica, una «nozione» fondamentale ed universale nella stessa misura in cui lo sono la quiddità, l'essere, l'ente e le categorie.
Certo, il chi è per lo più un che cosa. Si domanda «chi è il signor X» e si risponde: «È il presidente del Consiglio di Stato» o «È il signor Tale». La risposta si offre come quiddità, si riferisce a un sistema di relazioni. Alla domanda chi? risponde la presenza non qualificata di un ente che si presenta senza riferirsi a niente e che, però, si distingue da ogni altro ente. La domanda chi? tende ad un volto. La nozione di volto differisce da qualsiasi contenuto rappresentato. Se la domanda chi non domanda nello stesso senso della domanda che cosa, questo significa che in questo caso ciò che si domanda e chi è interrogato coincidono. Tendere ad un volto, significa porre la domanda chi proprio al volto che costituisce la risposta a questa domanda. Chi risponde e ciò che è risposto coincidono. Il volto, espressione per eccellenza, formula la parola fondamentale: il significante che viene alla luce al culmine del suo segno, come degli occhi che vi fissano.
Il chi dell'attività non è espresso nell'attività, non è presente, non assiste alla propria manifestazione, ma vi è semplicemente significato da un segno in un sistema di segni, cioè come un essere che si manifesta appunto in quanto assente dalla propria manifestazione: una manifestazione in assenza dell'essere-un fenomeno. Quando si comprende l'uomo a partire dalle sue opere, esso è più sorpreso che compreso. La sua vita e il suo lavoro lo nascondono. Simboli, essi rimandano all'interpretazione. La fenomenicità di cui si tratta non indica semplicemente una relatività della conoscenza; ma un modo d'essere in cui nulla è definitivo, in cui tutto è segno, presente che si assenta dalla sua presenza e, in questo senso, sogno.
(…)
Soltanto andando incontro ad Altri sono presente a me stesso. Non è che la mia esistenza si costituisca nel pensiero degli altri. Una esistenza cosiddetta oggettiva, quale si riflette nel pensiero degli altri, e in base alla quale faccio parte dell'universalità, dello Stato, della storia, della totalità, non mi esprime ma appunto mi nasconde. Il volto che accolgo mi fa passare dal fenomeno all'essere in un altro senso: nel discorso mi espongo all'interrogazione d'Altri e questa urgenza della risposta-stimolo acuto del presente-mi genera alla responsabilità; in quanto responsabile sono ricondotto alla mia realtà ultima. Questa attenzione estrema non attualizza quello che era in potenza, poiché essa non è concepibile senza l'Altro. Essere attenti significa un sovrappiù di coscienza che presuppone l'appello dell'Altro. Essere attenti significa riconoscere la signoria dell'Altro, ricevere il suo ordine o più esattamente ricevere da lui l'ordine di dare ordini. La mia esistenza come «cosa in sé» inizia con la presenza in me dell'idea dell'Infinito, quando mi cerco nella mia realtà ultima. Ma questo rapporto consiste già nel servire Altri.
Emmanuel Lévinas: Totalità e infinito - Jaca Book (pp. 181-184 )

venerdì 7 settembre 2012

Nome essenza dell'Io


Nome essenza dell'Io


Io ho un nome o sono un nome?
Qual è l'elemento che identifica la mia essenza?
Il mio apparire come fenomeno che si intenziona di fronte a un Tu oggettivante o il mio essere ontico, il mio Io in sé esistente per se stesso in quanto ente pensante?
Mi è sufficiente il Cogito ergo sum per dirmi Io o devo definirmi attraverso un fonema che esprima ciò che mi contraddistingue?
Il mio chiamarmi/chiamare me come Roberto definisce la mia essenza o il nome è soltanto un'etichetta che altri, i miei genitori, mi hanno consegnato a suo tempo?
Sarei diverso oggi se mi fossi chiamato Giuseppe o Andrea?
Mi sento diverso se qualcuno, scherzosamente o involontariamente storpia chiamandomi, il mio nome?
Chi sono io se devo definirmi? Con chi parlo quando parlo a me stesso? A chi mi rivolgo quando mi parlo, magari in uno specchio o attraverso i miei pensieri?
La risposta forse, non è nella definizione di me attraverso il nome ma il nome stesso, che chiamandomi a sua volta, definisce il Me ponendolo in relazione all'altro: Tu o alter ego che sia, in ogni caso l'ente intenzionato che mi è di fronte, in quanto essere altro in relazione con me.
Il nome quindi come possibilità di relazione che mi permette di entrare in contatto con la mia essenza attraverso l'oggetto, il Tu, del mio essere definito. Un Tu che mi oggettiva ponendosi come soggetto e oggettivato a sua volta da me che gli sto di fronte identificato attraverso il nome, proprio o attribuito.
In una parola, possiamo dire che il nome è relazione, di conseguenza è la relazione che mi identifica come Io oggettivato nel rapporto con l'altro e quindi mi definisce.