Se la descrizione del
corpo fatta dalla psicologia classica offriva già tutto quanto
occorre per distinguerlo dagli oggetti, per quale motivo gli
psicologi non hanno operato questa distinzione o comunque non ne
hanno tratto nessuna conseguenza filosofica? A questo proposito, va
detto che, con un modo di procedere naturale, essi si collocavano nel
luogo di pensiero impersonale al quale la scienza si è riferita
finché ha creduto di potere separare, nelle osservazioni, ciò che
dipende dalla situazione dell'osservatore e le proprietà
dell'oggetto assoluto. Per il soggetto vivente, il corpo proprio
poteva sì essere differente da tutti gli oggetti esterni, ma, per il
pensiero non situato dello psicologo, l'esperienza del soggetto
vivente diveniva a sua volta un oggetto e, anziché richiedere una
nuova definizione dell'essere, prendeva posto nell'essere universale.
Ecco il significato di «psichismo»,
che, pur essendo contrapposto al reale, era trattato come una seconda
realtà, come un oggetto di scienza che andava sottomesso a leggi. Si
postulava che la nostra esperienza, già investita dalla fisica e
dalla biologia, doveva risolversi interamente in sapere oggettivo
quando il sistema delle scienze fosse portato a termine.
Conseguentemente, l'esperienza del corpo si degradava a
«rappresentazione»
del corpo, non era un fenomeno, ma un fatto psichico. Nell'apparenza
della vita il mio corpo visivo comporta una vasta lacuna al livello
della testa, ma la biologia era lì a colmare questa lacuna, a
spiegarla con la struttura degli occhi, a insegnarmi che cosa in
verità è il corpo, che ho una retina, un cervello come gli altri
uomini e come i cadaveri che seziono, e che infine lo strumento del
chirurgo metterebbe infallibilmente a nudo, in questa zona
indeterminata della mia testa, la copia esatta delle tavole
anatomiche. Io colgo il mio corpo come un oggetto-soggetto, come
capace di «vedere»
e di «soffrire»,
ma queste rappresentazioni confuse facevano parte delle curiosità
psicologiche, erano campioni di un pensiero magico di cui la
psicologia e la sociologia studiano le leggi e che fanno rientrare a
titolo di oggetto di scienza nel sistema del mondo vero.
L'incompletezza del mio corpo, la sua presentazione marginale, la sua
ambiguità come corpo toccante e corpo toccato non potevano quindi
essere dei lineamenti di struttura
del corpo stesso, non ne scalfivano l'idea, divenivano i «caratteri
distintivi»
dei contenuti
di coscienza che compongono la nostra rappresentazione del corpo:
questi contenuti sono costanti, affettivi e bizzarramente accoppiati
in «sensazioni
doppie»,
ma, a parte ciò, la rappresentazione del corpo è una
rappresentazione come le altre e, correlativamente, il corpo è un
oggetto come gli altri. Gli psicologi non si accorgevano che,
trattando in questo modo l'esperienza del corpo, non facevano altro,
d'accordo con la scienza, che differire un problema inevitabile.
L'incompletezza della mia percezione era intesa come una
incompletezza di fatto
derivante dall'organizzazione dei miei apparati sensoriali; la
presenza del mio corpo come una presenza
di fatto risultante
dalla sua azione perpetua sui miei recettori nervosi; infine,
l'unione dell'anima e del corpo, presupposta da queste due
spiegazioni, era concepita, secondo il pensiero di Cartesio, come una
unione di fatto
la cui possibilità di principio non doveva essere stabilita, poiché
il fatto, punto di partenza della conoscenza, veniva eliminato dai
suoi risultati compiuti. Orbene, lo psicologo poteva sì per un
momento, alla maniera degli scienziati, guardare il proprio corpo con
occhi altrui, e vedere il corpo altrui, a sua volta, come un
meccanismo senza interiorità. L'apporto delle esperienze estranee
veniva a cancellare la struttura della sua, e reciprocamente, avendo
perduto il contatto con se stesso, egli diveniva cieco per il
comportamento altrui. Si installava così in un pensiero universale
che rimuoveva tanto la sua esperienza dell'altro quanto la sua
esperienza di se stesso. Ma, come psicologo, egli era impegnato in un
compito che lo richiamava a se stesso, e non poteva rimanere a questo
punto di incoscienza. Infatti, il fisico non è l'oggetto di cui
parla, come non lo è il chimico, mentre lo psicologo era
lui stesso, per
principio, il fatto di cui trattava. Quella rappresentazione del
corpo, quella esperienza magica che egli affrontava con distacco, era
lui, egli la viveva nello stesso tempo in cui la pensava. Come è
stato dimostrato, per conoscere lo psichismo non gli bastava certo il
fatto di esserlo: al pari di ogni sapere, anche questo sapere viene
acquisito solo in virtù dei nostri rapporti con l'altro; non è
all'ideale di una psicologia di introspezione che ci riportiamo, e lo
psicologo poteva e doveva riscoprire un rapporto preoggettivo sia fra
se stesso e l'altro che fra se stesso e se stesso. Ma in quanto
psichismo che parlava dello psichismo, egli era tutto ciò di cui
parlava.
Di questa storia dello psichismo, che egli sviluppava
nell'atteggiamento oggettivo, lo psicologo possedeva già pr3esso di
sé i risultati: o meglio: piuttosto ne era, nella sua esistenza, il
risultato contratto e il ricordo latente. L'unione dell'anima e del
corpo non si era compiuta una volta per tutte in un mondo remoto, ma
in ogni istante rinasceva al di sotto del pensiero dello psicologo,
non come un evento che si ripete e che ogni volta sorprende lo
psichismo, ma come una necessità che lo psicologo sapeva nel proprio
essere nello stesso tempo in cui la constatava con la conoscenza. La
genesi della percezione, dai «dati
sensibili»
sino al «mondo»,
doveva rinnovarsi a ogni atto percettivo, altrimenti i dati sensibili
avrebbero perduto il senso che dovevano a questa evoluzione. Lo
«psichismo»
non era quindi un oggetto come gli altri: tutto ciò che si sarebbe
detto di esso, lo psichismo l'aveva già fatto prima che lo si
dicesse; su se stesso l'essere dello psicologo la sapeva più lunga
di lui, a detta della scienza nulla di ciò che gli era accaduto o
gli accadeva gli era assolutamente estraneo. Applicato allo
psichismo, il concetto di fatto subiva quindi una trasformazione. Lo
psichismo di fatto, con le sue «particolarità»,
non era più un evento nel tempo oggettivo e nel mondo esterno, ma un
evento che toccavamo dall'interno, di cui noi eravamo il compimento o
il nascimento perpetui e che raccoglieva continuamente in sé il suo
passato, il suo corpo e il suo mondo. Prima di essere un fatto
oggettivo, l'unione dell'anima e del corpo doveva quindi essere una
possibilità della coscienza stessa e si poneva il problema di sapere
che cosa deve essere il soggetto percipiente per potere esperire come
suo un corpo. Qui non vi era più un fatto subito, ma un fatto
assunto. Essere una coscienza o piuttosto essere
una esperienza,
significa comunicare interiormente con il mondo, con il corpo e con
gli altri, essere con essi anziché accanto a essi. Occuparsi di
psicologia significa necessariamente incontrare, sotto il pensiero
oggettivo che si muove fra le cose bell'e fatte, una prima apertura
alle cose senza la quale non ci sarebbe conoscenza oggettiva. Lo
psicologo non poteva fare a meno di riscoprirsi come esperienza, cioè
come presenza immediata al passato, al mondo, al corpo e all'altro,
nel momento stesso in cui voleva riconoscersi come oggetto fra gli
oggetti. Ritorniamo dunque ai «caratteri» del corpo proprio e
riprendiamone lo studio al punto in cui lo avevamo lasciato. In
questo modo ripercorreremo il progresso della psicologia moderna ed
effettueremo con essa il ritorno all'esperienza.
(Maurice
Merleau Ponty, Fenomenologia
della percezione,
Studi Bompiani).