lunedì 19 dicembre 2011

Per un'etica senza Dio

Con l'accettazione del principio della Morte di Dio e la conseguente caduta dell'uomo nel nichilismo, anche se inteso nel senso positivo di volontà di potenza, si pone a questo punto il problema di un etica svincolata dai precetti religiosi... alla quale dover fare riferimento, venendo ora a mancare i capisaldi a cui l'uomo, confortato dalla parola di Dio era abituato ad osservare. La scienza, nella sua attuale presunzione di onnipotenza, si pone come portatrice di valori che tali non sono. Se pensiamo solo alle nuove tecniche di rianimazione e ricerca in medicina, possiamo capire quanto oggi l'uomo sia oltremodo orfano non solo del Padre, ma anche di un senso dell'etica che non può più fare affidamento sui dogmi religiosi. L'affermazione di un'etica laica può essere la sfida lanciata all'uomo ormai orfano di Dio e finalmente costretto a fare a meno della guida paterna. Riuscirà l'uomo tecnologico a vincere questa sfida?

mercoledì 30 novembre 2011

Libertà e fine vita

Il caso di Lucio Magri pone e impone una riflessione sulla libertà di ciascuno di disporre della decisione riguardo al momento della propria fine.
Al di là del caso particolare per il quale provo profondo rispetto e di conseguenza non ritengo giusto dissertare in quanto ciò che è accaduto è frutto di scelte personali e percorsi sconosciuti se non ai protagonisti della vicenda, mi pare opportuno cogliere l'occasione per una riflessione. La religione cristiana afferma che l'uomo non è padrone della propria vita in quanto essa è dono divino, di conseguenza soltanto Dio può decidere il quando e il come questa può aver termine. Sempre la Chiesa cattolica però accetta, anzi incentiva, la scienza medica che prolunga a dismisura l'opportunità di vita attraverso pratiche terapeutiche dal significato naturale quantomeno discutibile.
L'utilizzo di tecniche terapeutiche più o meno invasive ha permesso di procrastinare l'aspettativa di vita per determinati pazienti in un tempo non lontano destinati a morte breve, ad un prolungamento indefinito di sopravvivenza biologica a scapito di qualità e dignità della vita stessa.
Ma non è solo di questo che vorrei riflettere.
Il tema del diritto al suicidio, assistito e non, è un tema scottante che niente ha a che fare con accanimenti terapeutici o stati vegetativi di qualunque genere. Stiamo parlando qui di persone che decidono di porre un termine preciso alla propria vita coscientemente, nel pieno delle loro facoltà mentali e cognitive. La domanda che bisogna porsi è la seguente: può l'uomo decidere come e quando morire? e se sì ha diritto a un'assistenza in questo senso? Tornando a Magri leggo che egli stesso rifiutava l'idea di una morte violenta autoprovocata per se stesso, da qui la scelta di ricorrere all'agenzia svizzera preposta allo scopo. Il regista Monicelli, altro esempio della disperazione di questi ultimi tempi, ha scelto invece questo tipo di conclusione, con tutta la violenza che ne è conseguita, forse a causa della mancanza di alternative, vista la situazione ma il concetto non cambia. Entrambi, come numerosi altri casi silenziosi perché non conosciuti ma altrettanto reali, hanno posto fine ai propri giorni in modo cosciente, dettato da una disperazione che non trovava scampo, come unica uscita da un malessere di vita negazione della vita stessa. Da un'intervista a Valentino Parlato apparsa su La Repubblica emerge il fatto che Magri temeva la vecchiaia come portatrice di malattie. Al di là della depressione annunciata sulla stampa in questi giorni di cui pare fosse affetto non so quali altre patologie interessassero l'esponente comunista e comunque non è questo che ci interessa. Ci interessa invece l'identificazione spesso erronea del binomio vecchiaia-malattia. È proprio così sicuro che la prima condizione implichi necessariamente anche la seconda? E se sì che futuro ci aspetta? Un futuro di malattia? E allora per quale ragione siamo così attaccati alla nostra vita se un destino ineluttabile ci attende? Forse sarebbe meglio morire prima? O forse possiamo sperare che certe situazioni possano accadere soltanto agli altri, ammalati come siamo, è il caso di dirlo, di un fatalismo che ci preserva dalla paura di noi stessi?
E che dire di quanti adottano il suicidio in età non sospette, come atto estremo e irripetibile di un messaggio rivolto a chi resta in un ultimo urlo disperato dovuto all'incapacità di una relazione che non è riuscita a veicolarsi per i motivi più diversi.
Le persone si suicidano, nei modi e nei tempi che ciascuno sceglie o è costretto a scegliere, a volte in modi brutali e dolorosi, dettati da una disperazione sconfinata, difficile da contenere. Nella vicina Svizzera il suicidio è possibile, a determinate condizioni, in modo indolore, assistito e cosciente. Un'equipe di medici e altri professionisti si prende cura della persona e spesso, stando ai dati forniti dall'agenzia stessa, buona parte dei candidati rinuncia ai suoi propositi. E proprio il prendersi cura penso sia la chiave della “rivoluzione copernicana” di kantiana memoria, che i professionisti sanitari dovrebbero adottare. Fino ad oggi i medici e tutti gli agenti nelle pratiche sanitarie si sono posti come obiettivo la guarigione dei propri pazienti. Tutto ciò è molto importante ma non basta. Prendersi cura di una persona, a differenza del curare, presuppone il fatto di accettare anche la sconfitta, reputata tale da quanti vogliono a tutti i costi guarire, ponendosi in un atteggiamento di accompagnamento rispettoso di quanti non hanno prospettive di guarigione. La sfida da raccogliere in questi casi è data dalla sconfitta o attenuazione, questo sì, del dolore, anche se ciò dovesse comportare l'abbreviazione della durata della vita stessa.
Non sto qui facendo un'apologia dell'eutanasia, pratica ben diversa in quanto attiva, da un lasciare andare naturalmente, qualora si verificassero i presupposti per un'impossibilità di risoluzione positiva del caso. Tutto questo dovrebbe essere preceduto da una dichiarazione del soggetto in forma di testamento biologico, attraverso il quale la persona può esercitare pienamente il proprio diritto di disporre della propria vita, suicidio compreso.


domenica 13 novembre 2011

L'ANIMA DEGLI OGGETTI

È il nostro notarli che mette gli oggetti in una stanza, la nostra abitudine che li toglie di nuovo e libera spazi per noi” (Marcel Proust – Recherche – All'ombra delle fanciulle in fiore).


Esiste una differenza non soltanto terminologica per definire le cose che ci circondano e gli oggetti che ci appartengono. Le cose ordinarie, di uso quotidiano delle quali nemmeno ci accorgiamo e di cui ci sbarazziamo facilmente non rappresentano essenzialità sulle quali valga la pena soffermarsi più di tanto.
Altro questione riguarda gli oggetti propriamente detti che, in quanto tali, ci stanno di fronte in una relazione tra soggetti, noi e loro, gli oggetti appunto.
Nel momento in cui investiamo di significato una cosa qualunque, caricandola di un valore che ci richiama a un ricordo, una persona, un vissuto particolare, dotiamo l'oggetto di un significato che trascende il valore in sé dell'oggetto stesso, come a indicare che ciò che si pone innanzi a noi è dotato di un'anima propria che è proiezione dell'immagine che viene evocata, sia essa legata a una persona o a una situazione particolare.
Viene da domandarsi se il valore che noi attribuiamo a queste cose non sia dettato più dai significati che a nostra volta siamo propensi a scorgere tra le pieghe dei nostri pensieri, in un abbandono non del tutto razionale che permetta un meta pensiero che sconfini in mondi che vanno al di là di ciò che realmente vediamo, o se pure esiste un'energia emanata da questi materiali inorganici che facilitano la nostra relazione con il mondo.

domenica 23 ottobre 2011

Rituali

Questa mattina ho assistito a una matineé di musica classica, un concerto per violino e pianoforte in una suggestiva sala di un palazzo storico del centro città. Durante lo svolgimento del concerto riflettevo su alcune modalità di comportamento sia da parte dei musicisti che del pubblico del quale facevo parte io stesso. Tutto si svolgeva secondo un copione non scritto, quasi ci fosse stato un accordo prestabilito tra i presenti o meglio, a questo punto, attori della situazione. Le modalità di esecuzione, gli applausi, le uscite e i rientri ripetuti, il perdurare degli applausi volti a richiamare in scena gli artisti, gli inchini contemporanei, i bis (due) visibilmente preordinati e programmati, tutto si svolgeva secondo un copione non scritto ma fedele a una partitura comune e nota a tutti. Quello al quale stavo assistendo era un rituale in piena regola.
Viene da chiedersi a questo punto fino a che punto ciascuno di noi necessita, nel suo vivere quotidiano, di rituali fissi e prevedibili e quanto essi siano rassicuranti per il nostro equilibrio esistenziale. Forse senza accorgersi viviamo e interpretiamo in ogni momento parti di rituali che ci vengono imposti o suggeriti dall'esterno, ma anche di rituali che noi stessi ci costruiamo su misura per nostro benessere.
Possiamo dire che esistono due tipologie di rituali che condizionano la nostra esistenza: i macro rituali dettati dal nostro essere calati in una società che ci vede partecipi in quanto animali politici di aristoteliana concezione quali i riti religiosi, politici, sociali volti a identificarci verso noi stessi e gli altri, finalizzati a fornirci un'identità precisa del nostro vivere comune e poi esistono i micro rituali, le consuetudini quotidiane e individuali che riserviamo a noi stessi, in una coazione a ripetere che ci permette di restare fissi nel nostro equilibrio mentale. Trasgredire questi rituali ci destabilizza come destabilizzanti sono, per la società, le trasgressioni collettive o svolte in ambiente sociale.
La ritualità esiste quindi in quanto rassicurazione di una continuità che non provoca scosse e rende le nostre vite indirizzate su binari di omologazione?
E quanto di tutto ciò, nella nostra singolarità, pesa nel nostro definirci come esseri riconosciuti innanzitutto di fronte a noi stessi?

giovedì 29 settembre 2011

Identità e relazione

L'esperienza del diverso presuppone un incontro con l'altro da noi e svela al tempo stesso la coscienza di me stesso in quanto essere culturale inserito in un universo molteplice in un contesto all'interno del quale non è più possibile pensare che tutto ciò che mi appartiene culturalmente sia patrimonio dell'umanità intera. La presa di coscienza dell'alterità da parte dell'uomo occidentale, dal momento in cui è entrato in contatto con popolazioni culturalmente distanti da lui, ha consentito un passaggio per certi versi obbligato attraverso una riflessione identitaria che prosegue ancora oggi.
La definizione del termine stesso di cultura pone interrogativi attraverso i quali le certezze fondanti di una concezione del vivere comune vengono costantemente rimessi in discussione. Il divenire di una cultura che si pensava orientata verso un'evoluzione determinata, mette in crisi la concezione di inviolabilità dei principi sui quali si è sempre basato il sentire comune e pone in discussione il concetto stesso di esclusività rispetto alle possibili e inevitabili contaminazioni che il dialogo interculturale propone.
A questo punto la relazione si propone come motore fondante dei processi inculturativi, di conseguenza penso sia necessario puntare sull'approfondimento di questo aspetto proprio per mettere ancora di più in risalto eventuali contraddizioni insite nelle concezioni esclusiviste che derivano da pericolosi arroccamenti culturali dettati dalla paura del confronto. Acquisire gli strumenti giusti per gestire il confronto con la diversità potrebbe rappresentare la chiave per aprire la porta ad un dialogo finalmente spogliato dai pregiudizi caratterizzati dalla paura del confronto e dal timore della perdita della propria identità.

domenica 25 settembre 2011

Ciao!

Viviamo immersi in una società di amici (e non solo a causa di Facebook) dove l'estraneo sembra non esistere, dove basta entrare in un negozio, rispondere alla chiamata di un call center, per sentirsi apostrofare confidenzialmente con un ciao, con una confidenza e un senso di convivialità degne di un'amicizia di vecchia data.
Fin qui tutto bene, forse. Purché si resti nei confini del contatto superficiale, quello che non coinvolge, che non implica una necessaria messa in discussione di ciò che siamo veramente, perché gli specchi che ci troviamo di fronte potrebbero mettere a nudo ciò che siamo veramente, con i nostri difetti, le nostre imperfezioni, le nostre debolezze.
Scatta a questo punto il meccanismo di difesa che ci porta a considerare l'altro come il "nemico" dal quale guardarsi, invasore della nostra privacy.
Ma allora perché siamo così propensi ad accettare il "tu" confidenziale anche in situazioni che non lo richiederebbero?
Forse perché ci accontentiamo di contatti che non vanno oltre il primo strato della nostra essenza?
Viviamo forse in una Società nella quale la superficialità è assunta a dogma, dove nemmeno a noi stessi, a volte, è consentito di fermarsi a osservare ciò che siamo e come agiamo, presi dal ritmo frenetico del nostro vivere, ancora di salvezza contro lo sguardo interiore che potrebbe giudicare e giudicarci, mettendo in crisi la nostra stessa modalità di vita.
Se riuscissimo anche solo per un attimo a fermarci ad osservare al nostro interno, forse troveremmo più di un motivo per fuggire urlando.

Identità

Quando il muro di Berlino è caduto, il 9 novembre 1989, molte persone hanno sperato che sarebbe iniziata in tutti i continenti un'epoca di pace, libertà e prosperità senza precedenti nella Storia. Dodici anni dopo si sono verificati gli attentati dell'11 settembre 2001 e questa prospettiva è sembrata improvvisamente molto lontana. Senza dubbio ci sono state, in questo o in quel paese, dei progressi significativi - elezioni insperate, riconciliazioni spettacolari, iniziative di pace. Ma la violenza è restata quotidiana, la gestione del mondo resta confusa, gli equilibri restano fragili e l'avvenire del paese è  offuscato da mille incertezze.
Perché lo scenario ottimista non si è realizzato? Una delle spiegazioni è che con la fine della guerra fredda siamo passati da un mondo in cui gli attriti erano fondamentalmente ideologici a un mondo in cui gli attriti sono fondamentalmente identitari.
Le appartenenze religiose hanno sicuramente giocato un ruolo di primo piano nel crollo dell'edificio sovietico, dalla Polonia all'Afghanistan. Era dunque prevedibile che giocassero un ruolo anche nel periodo che ha seguito il crollo del Muro. Tanto più che le dottrine che avevano dominato il XX secolo avevano ormai perso la loro attrattiva.
Ma se il lungo confronto ideologico fra comunismo e capitalismo si è rivelato pericoloso e rischioso, aveva tuttavia avuto almeno un merito, quello di suscitare un dibattito intellettuale permanente. Al contrario, gli attriti identitari non suscitano alcun dibattito ideologico. L'appartenenza a una comunità religiosa è generalmente determinata dalla nascita e non deriva da una scelta. Un'identità si scopre, si assume, si proclama; non è mai dibattuta con coloro che appartengono alla "parte avversa". Si afferma ad alta voce la propria appartenenza, spesso con tono di sfida e di solito contro un "nemico", reale o immaginario che sia. Dopo di che, non c'è più nulla da discutere. Ci si accontenta di accusare, di condannare e di demonizzare.
Non dubito che per molti anni ancora il problema dell'identità avvelenerà la Storia, indebolirà il dibattito intellettuale, diffondendo ovunque l'odio, la violenza e la distruzione. Ma non basta deplorare un'evoluzione così inquietante né basta scaricare la colpa sull'Altro, chiunque egli sia. Dobbiamo cercare di domare la pantera identitaria prima che ci divori. E, per iniziare, è essenziale che la osserviamo con attenzione.
(Amin Maalouf: L'identità - Bompiani 2009).
Il crollo delle ideologie ci ha lasciati orfani di una conformità del pensiero , di conseguenza ci siamo aggrappati a ciò sembrava più a portata di mano, il senso rassicurante di un'appartenenza religiosa, culturale o etnica, magari a volte nemmeno fondata su basi troppo solide, ma che ci garantisce la possibilità di rinchiuderci all'interno di un fortino inattaccabile, al sicuro da ogni minaccia di messa in discussione, segno di una debolezza che caratterizza la paura del confronto, della contaminazione e del cambiamento, dimenticando che lo sviluppo culturale si basa proprio sulle contaminazioni, gli scambi, i contatti con quanti sono altro da noi.

giovedì 15 settembre 2011

Della morte e la sua negazione

Nella civiltà Maya chi vinceva alla pelota riceveva come premio il privilegio di venire sacrificato agli dei. In un mondo in cui il rischio di morire di diarrea era immenso, era un grande onore morire da eroi. La morte si sublima nell'eroismo. Oggi nessuno vuole più morire da eroe, perché le chance di vivere a lungo sono grandi. Da qui anche la crisi della religione. La gente non si interroga più sull'aldilà, ma sul come conservarsi, come mantenersi giovane. Io dico che la gente non parla più di Dio e della morte, ma della pensione.
Prima la morte di una persona era un fatto corale. Moriva uno e i vicini di casa assistevano, aiutavano, ognuno faceva così un'esperienza della morte. Oggi è il contrario, la morte viene celata, nascosta, nessuno sa più gestirla, sa cosa fare dinanzi ad un morto. I vicini scappano, non partecipano. Prima un ragazzo faceva spesso l'esperienza della morte, oggi uno può arrivare alla propria senza mai aver visto quella altrui.
Prima uno dall'ospedale veniva portato a casa a morire. Ora è il contrario, la famiglia porta uno a morire all'ospedale perché nessuno sa cosa fare col morto.
Nota dal diario di Tiziano Terzani, 25 agosto 1992.
(Tiziano Terzani – Tutte le opere Vol. 1° - I Meridiani, Mondadori)



giovedì 8 settembre 2011

Interregno

"Per mascherare il collasso si fece dare un cannocchiale (...) e si mise a guardare verso il nord appoggiando i gomiti al parapetto, ciò che lo aiutava a tenersi in piedi. Oh, se almeno i nemici avessero aspettato un poco, sarebbe bastata una settimana perché lui si potesse rimettere, avevano aspettato tanti anni, non potevano tardare ancora qualche giorno, qualche giorno soltanto?
Guardò nel cannocchiale il visibile triangolo di deserto, sperò di non scorgere nulla, che la strada fosse deserta, non ci fosse alcun segno di vita; questo si augurava Drogo dopo aver consumato la vita nell'attesa del nemico."
(Dino Buzzati - Il deserto dei tartari - Mondadori 1963).

Il '900 è definito il secolo breve, nel senso che sarebbe cominciato nel 1914 con la prima guerra mondiale e terminato nel 1989 con il crollo del muro di Berlino e la conseguente implosione del mondo comunista. Verrebbe da pensare che oggi siamo nel pieno di un nuovo secolo, una nuova era nella quale la Storia inizia un nuovo corso. Ma è davvero così? O dobbiamo invece considerare il periodo che va dal 1990 all'undici settembre 2001 come una sorta di interregno dove l'Occidente, come potenza superstite accarezzava il sogno di dominare la scena mondiale una volta sgombrato il campo da ogni minaccia sostanziale?
E cosa è successo davvero l'undici settembre di dieci anni fa? Di sicuro è cambiata la percezione che la potenza americana aveva di se stessa, una potenza invincibile che mai nessuno avrebbe potuto attaccare, meno che mai sul proprio territorio. Ma è davvero quella data a segnare il sorgere di uno scontro di civiltà riproponendo, a distanza di qualche secolo, la contrapposizione tra Cristianità e Islam? Possiamo ancora pensare oggi  che lo scontro è di natura interreligiosa? La cultura islamica, per quanto tenti di contrapporsi, almeno nella sua componente integralista, alla contaminazione culturale con l'Occidente, favorita anche dalla commistione dovuta alla convivenza in qualche modo favorita dal fenomeno dell'immigrazione e la conseguente contaminazione culturale che modifica gli stili di vita di una società sempre più multietnica, sembra, suo malgrado troppo compenetrata con l'Occidente, dal punto di vista economico, più che da quello culturale.
La data del crollo delle Torri Gemelle a New York segna in ogni caso l'inizio della crisi di una visione occidentale di inviolabilità alla quale ha fatto seguito una serie di episodi che hanno portato a una crisi di sistema tale per cui oggi ci troviamo come non mai sull'orlo di un abisso dal quale non riusciamo a vedere la fine.
Ma in tutto questo, visto il declino ineluttabile nel quale l'Occidente sembrerebbe ormai proteso, chi o cosa è in grado di sostituire il blocco fino a ieri dominante nel mondo?
Non saranno le economie emergenti, Cina innanzi tutto, che con il loro sistema granitico di un capitalismo svincolato dai freni di una democrazia che non gli appartiene, riuscirà a imporsi come nuova potenza dominante per il prossimo secolo a venire?

lunedì 22 agosto 2011

Voyerismo

C'era il pubblico, c'erano le tv, i fotografi e diversi osservatori. Il video sta girando sul web per essere visto in ogni parte del pianeta. I maggiori portali lo segnalano come video interessante e chissà quanti di noi naviganti lo stiamo diffondendo sui social network. Ma resta un fatto: un uomo è morto per aver commesso un errore di valutazione del rischio, un gesto sbagliato, una presa mancata, un colpo di vento improvviso, chissà.
Le persone presenti si erano radunate per assistere ad un evento che potesse dare loro emozione. Risultato raggiunto e con il massimo delle possibilità. Ma cosa cercavano esattamente quelle persone? L'emozione, quella vera, si ottiene quando tutto va bene oppure quando l'imprevisto prende il sopravvento? E fino a che punto l'imprevisto non era addirittura inconfessabilmente desiderato? Quante volte ci siamo soffermati a vedere gare automobilistiche nella speranza, celata, di poter vedere qualche incidente? La morte contiene intrinsecamente una sua spettacolarità? E perché?

venerdì 29 luglio 2011

Ruoli intergenerazionali

Il gioco come relazione. Passaggio intergenerazionale di saperi nel quale sperimentare il modo di essere di domani. Questo avveniva ieri, dove le competenze erano appannaggio delle generazioni adulte e i giovani avevano modo di ricevere il testimone di un'esperienza che permettesse loro di proseguire un cammino di vita.
Oggi, dove la tecnologia si muove con velocità inaudite, le competenze sono appannaggio di chi riesce a sostenerne il ritmo. Per questo l'immagine dell'anziano, da saggio trasmettitore di saperi è diventato un peso improduttivo del tutto inutile quando non dannoso.

mercoledì 27 luglio 2011

Storia d'Italia

Vi siete mai chiesti perché l'Italia non ha avuta, in tutta la sua storia - da Roma ad oggi - una sola vera rivoluzione? La risposta - chiave che apre molte porte - è forse la storia d'Italia in poche righe.
Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani... "Combatteremo" fece stampare quest'ultimo in un suo manifesto "fratelli contro fratelli". (Favorito, non determinato, dalle circostanze, fu un grido del cuore, il grido di uno che - diventato chiaro a se stesso - finalmente si sfoghi). Gli italiani sono l'unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda) un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione.
Gli italiani vogliono darsi al padre ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli.
(Umberto Saba, Scorciatoie e raccontini - Mondadori Editore).

sabato 23 luglio 2011

Fondamentalismo e alterità

...nel linguaggio comune, si può notare che l'impiego dell'espressione “straniero” implica una caratterizzazione in termini esclusivamente negativi, poiché allude a ciò che gli individui così designati non sono (originari del nostro paese) o a ciò che non hanno (la nostra lingua, la nostra cultura, la nostra religione). L'espressione si limita a rilevare il loro essere-esterni privo di qualsiasi altro connotato salvo quello della stranezza, che dà una particolare tonalità alla parola sia in italiano sia in francese (étranger) e in inglese (stranger). All'esteriorità si aggiunge così la nota della difformità da ciò che è consueto, e che perciò suscita perplessità e sconcerto. In molti casi, dunque, è “estraneo” o “straniero” quello che è anche percepito come “strano”.
Il primo effetto semantico di tale rappresentazione linguistica è l'oscuramento di ogni differenza tra le molteplici identità linguistiche, culturali e religiose di cui è costituita l'umanità che viene da fuori: ciò che dell'”altro” il termine straniero ritiene pertinente è semplicemente la sua non-appartenenza, rispetto alla quale ogni ulteriore nota distintiva appare irrilevante o del tutto secondaria.
L'anonimato in cui l'appellativo di “stranieri” rigetta la varietà dei gruppi umani si riflette sulla natura della relazione che entro tale orizzonte di senso diventa possibile, rendendola massimamente impersonale: ciò che mi unisce a colui che, per me, non è che uno straniero non può avere nulla di unico e di esclusivo, ma mi accomunerà a lui come un numero indeterminato e del tutto indifferenziato di altri individui; ciò che, viceversa, da lui mi divide, racchiuso nella sua strana esteriorità, acquisterà su questo sfondo un'importanza decisiva. Per questa ragione, come sottolinea ancora Simmel, lo straniero è ambivalente: vicino e lontano, escluso e incluso, attratto e respinto. Nell'interazione fra straniero e gruppo emerge una dinamica di apertura e chiusura. La chiusura risponde appunto all'esigenza della comunità di conservarsi inalterata per tutelare la propria identità; l'apertura risponde all'esigenza del rinnovamento con risorse nuove.
L'immagine degli stranieri che lo specchio del nostro linguaggio ci riflette è, dunque, quella di una massa anonima e indifferenziata di uomini che, in quanto abita la nostra terra e la nostra cultura senza affondare in esse le sue radici, ci è intrinsecamente estranea. Le molte differenze che, con le parole e con la pratica, in realtà si fanno tra differenti categorie di stranieri (comunitari ed extracomunitari, legalmente soggiornanti o clandestini, profughi, rifugiati, esiliati, ecc.) si inscrivono tutte, come determinazioni aggiuntive, entro un'identificazione al suo interno semanticamente vuota e i cui significati si addensano sul confine netto che essa demarca tra poli nettamente contrapposti. È a partire da questa struttura formale che il rapporto può configurarsi più facilmente nei termini dell'opposizione amico-nemico (Umberto Curi: Straniero – Raffaello Cortina Editore, Milano 2010).

venerdì 8 luglio 2011

L'abitudine

Al principio della mia detenzione, comunque, la cosa più dura è stata che avevo dei pensieri di uomo libero. Per esempio mi veniva voglia di essere su una spiaggia e scendere verso il mare. Quando pensavo al rumore delle prime onde sotto la pianta dei piedi, al mio corpo che entrava nell'acqua e al sollievo che ne provavo, di colpo sentivo quanto erano stretti i muri della mia prigione. Ma questo durò qualche mese soltanto. In seguito non ebbi che pensieri di prigioniero. Aspettavo la passeggiata quotidiana che facevo nel cortile della prigione, o la visita dell'avvocato. Mi arrangiavo bene col tempo che mi restava. Ho pensato spesso, allora, che se avessi dovuto vivere dentro un tronco d'albero morto, senz'altra occupazione che guardare il fiore del cielo sopra il mio capo, a poco a poco mi sarei abituato. Avrei atteso passaggi di uccelli o incontri di nubi come, lì, attendevo le strane cravatte dell'avvocato e come, in un altro mondo, aspettavo pazientemente il sabato per avere il corpo di Maria. In realtà, a pensarci bene, non ero dentro un albero morto. C'erano persone più infelici di me. Del resto era un'idea della mamma, e lei lo ripeteva sempre, che si finisce per abituarsi a tutto.
(Albert Camus – Lo straniero, pagg. 94-95 Ed. Bompiani 2010)

È veramente possibile abituarsi a tutto? Spesso ci lasciamo scorrere addosso gli eventi, bombardati come siamo di notizie di ogni genere e non ci rendiamo conto di ciò che accade veramente attorno a noi. Fatti che avrebbero suscitato, in un tempo non lontano, indignazione se non addirittura sollevazioni popolari, adesso passano in maniera indolore quasi fossero parte della normale routine di vita. La reiterazione delle vicende che contribuiscono ad alimentare il decadimento dei valori di questa società porta verso atteggiamenti di indifferenza fino a qualche tempo fa impensabili. Non mi riferisco soltanto alle tristi vicende italiane, credo sia un problema più generalizzato e tipico della civiltà occidentale, che tutto fagocita e digerisce, incapace com'è di soffermarsi a riflettere su ciò che accade, sempre proiettata verso un futuro vuoto e privo di un fondamento basato sulle origini e sulla provenienzaÈ come se vivessimo in un eterno presente, pensando a quello che faremo domani, dimenticandoci chi e cosa eravamo ieri.
   

martedì 28 giugno 2011

Caffè filosofico

Cos'è fare filosofia? Chi è deputato a esprimere concetti del fare filosofico? Per "filosofare" è necessario padroneggiare gli assunti e i percorsi della storia della filosofia?
O è sufficiente il porsi domande?

domenica 26 giugno 2011

Chi è l'altro?

Nel nostro metterci in relazione siamo costretti a entrare in contatto con l'altro: l'altro per cultura, per provenienza geografica, per religione, per etnia, lingua, per età, genere sessuale, appartenenza politica. Per ciascuno di essi applichiamo i nostri stereotipi di riferimento che ci permettono di incasellare, rassicurandoci, l'essere che abbiamo di fronte. Da qui ne valutiamo la pericolosità e la posizione nella gerarchia sociale rispetto a noi. Ma chi è l'altro? E chi siamo noi di fronte a quello sguardo che si sta ponendo le stesse nostre domande, si sta rispondendo esattamente come noi, incasellandoci nel nostro essere altri da lui. E' possibile a questo punto entrare in relazione con questo altro? L'unico modo per poter dialogare veramente può solo essere quello che permette di porre le due realtà sullo stesso piano dignitario, costringendo ciascuno a compiere quel passo indietro che non impone la propria specificità a scapito dell'altra. Io ascolto l'altro rimanendo me stesso ma senza impormi. Solo su questo piano possiamo impostare un rapporto basato sulla interculturalità.

sabato 25 giugno 2011

Empatia e relazione

Parlare di empatia richiama immediatamente una serie di esperienze quotidiane che permettono di percepire l'esistenza dell'altro e insieme di "comprenderne" la personalità, le motivazioni che lo muovono ad agire e quindi di entrare in un rapporto di scambio, di comunicazione. L'empatia mette innanzitutto in contatto con la ricchezza infinita dell'esistenza di altri accanto a noi. (...) L'empatia mette in contatto con un'emozione altrui, dolorosa o di altro tipo, ma non è identificabile con la partecipazione emotiva, la condivisione di un affetto o con altre forme particolari di comunicazione con gli altri. (...) La relazione non è un mezzo per unire le rive opposte di un fiume. La relazione è il ponte che permette di transitare dall'una all'altra. E i due soggetti che si sono incontrati adesso non abitano più ciascuno sulla propria riva. Si muovono avanti e indietro sul ponte. (Laura Boella - Sentire l'altro - Raffaello Cortina Editore 2006).

Spesso confondiamo empatia con coinvolgimento emotivo. Nell'atteggiamento empatico invece, il disincanto è essenziale proprio per favorire quello sguardo distante che permette di com-prendere realmente l'altro e offrire in questo modo una reale relazione d'aiuto. Relazione che modifica necessariamente i due soggetti in questione sulla base dei feedback ricevuti. Se l'essere umano per definizione è relazione questa lo porta ad una condizione di continuo movimento, in un divenire mai statico ma portato oltre dalle relazioni che incontra e com-prende.

giovedì 16 giugno 2011

Ricordi dalla collina

Linguaggio e relazione

Da una parte il pensiero occidentale che, attraverso la scienza, privilegia la ragione, non riuscendo a fare propria la necessità di andare oltre l'ente per com-prendere l'essere nella sua essenza, limitandosi a concepire l'essere in quanto ente.
D'altra il linguaggio, che non esaurisce le possibilità di una relazione, se non sconfinando nei territori della poesia, abbandonando la superficie per sprofondare nella vera essenza delle possibilità. Una relazione efficace si può avere solo attraverso questo superamento evolutivo del linguaggio che sappia guardare oltre gli occhi che lo incontrano.

martedì 14 giugno 2011

Oggettività reale o realtà oggettiva

Quale è il sapore del pane? Quello del primo pezzo che mangio quando ho fame o quello che mangio dopo quando mi sono saziato? Quale è l'odore dell'arrosto? Il buono, il caro, che ogni altro odore vince, quale mi spira incontro s'io cerchi invano il pane o quello del pezzo d'arrosto che avanza alla mia tavola? E l'occhio, che cos'è che l'occhio vede? Davvero io credo che ognuno possa esperimentare la dubbia vista del suo occhio, ed essere incerto quale sia la faccia delle persone che più gli sono vicine. Guardate la faccia dell'amico in cui credete e vi sarà una nobile faccia – e la nobiltà localizzerete sul naso o nella fronte o in un certo che degli occhi – guardatelo quando v'abbia tradito e vedrete una bocca turpe, una cera sinistra, un'espressione insomma che non va. (…) Quale è l'esperienza della realtà?
S'io ho fame la realtà non mi è che un insieme di cose più o meno mangiabili, s'io ho sete, la realtà è più o meno liquida, e più o meno potabile, s'io ho sonno, è un grande giaciglio più o meno duro. Se non ho fame, se non ho sete, se non ho sonno, se non ho bisogno di alcun'altra cosa determinata, il mondo mi è un grande insieme di cose grigie ch'io non so cosa sono ma che certamente non sono fatte perch'io mi rallegri. (Carlo Michelstaedter – La persuasione e la rettorica – Adelphi 2007).

Già Cartesio metteva in dubbio l'affidabilità dei sensi nel leggere e percepire la realtà che ci circonda. Spesso siamo portati a considerare con superficialità ciò che abbiamo di fronte, spendendoci in giudizi frettolosi che non concedono il tempo di riflessioni approfondite, spinti come siamo a vivere una vita che ci passa accanto senza permetterci di afferrarla mai veramente. Ma fino a che punto le condizioni esterne, il nostro stato emotivo, i pregiudizi, condizionano la nostra lettura della realtà? Possiamo parlare veramente di una oggettività di ciò che ci circonda?

giovedì 9 giugno 2011

Cristianesimo e trasgressione

Il cristianesimo è una religione che non ospita il male. Distrutto il simbolo, che nella sua essenziale ambivalenza com-pone bene e male, limite e trasgressione, il cristianesimo ha identificato la sacralità in quel tutto positivo che è il Dio assolutamente diviso dal diavolo, cacciato in inferno. Sotto questo profilo il Dio cristiano è la forma più costruita che vi sia sul sentimento umano più deleterio: quello dell'uomo che non conosce la sua ombra e perciò può permettersi di fare male senza saperlo. Se il cristianesimo si inaugura sulla croce, sulla croce è detto: "Perdona loro ché non sanno quello che fanno". Disconoscimento della santità della trasgressione, persino della sua consapevolezza. (U. Galimberti - Il Corpo - Feltrinelli 2002).

La religione cristiana in funzione autoassolutoria? L'aver separato nettamente il bene dal male pone l'uomo occidentale nella condizione di potersi comunque salvare indipendentemente dai suoi atti, investito della incosapevolezza e forte del perdono che laverà i suoi peccati?

martedì 31 maggio 2011

Spinoza

Siamo liberi di decidere i nostri atti o il nostro agire è causato da un insieme di determinazioni che governano la nostra volontà?

sabato 28 maggio 2011

L’inferno dei viventi

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che già è qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne.
Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio  (Italo Calvino, Le città invisibili, Oscar Mondadori, Milano,2002, pag. 164)

La scelta si impone tra il vivere tranquillo di un'esistenza senza troppi dubbi o domande poste sui perché del nostro agire e l'alternativa che porta all'inquietudine di un continuo cercare, mai saziandosi di un essere uniforme e prevedibile, curiosi di scoprire le infinite possibilità che le nostre relazioni possono costruire.

sabato 21 maggio 2011

Arte e(è) follia?

La follia di Nietzsche, la follia di Van Gogh o quella di Artaud, appartengono alla loro opera, non più né meno profondamente forse, ma in tutt'altro modo. Nel mondo moderno la frequenza di queste opere che scoppiano nella follia non prova nulla indubbiamente sulla ragione di questo mondo, sul senso di queste opere e neppure sui rapporti tra il mondo reale e gli artisti che le hanno prodotte. Questa frequenza bisogna tuttavia prenderla sul serio, come l'insistenza di una domanda; a partire da Hölderlin, il numero degli scrittori, pittori e musicisti che sono «sprofondati» nella follia si è moltiplicato; ma non inganniamoci; tra la follia e l'opera non c'è stato accomodamento, né scambio più costante, né comunicazione di linguaggio; il loro scontro è molto più pericoloso di un tempo, la loro contestazione non perdona; si tratta di vita o di morte. La follia di Artaud non si insinua negli interstizi dell'opera; essa è appunto l'assenza d'opera, la presenza ripetuta di questa assenza, il suo vuoto centrale sentito e misurato in tutte le dimensioni che non hanno confini. L'ultimo grido di Nietzsche, che si proclamava a un tempo Cristo e Diòniso, non è, ai confini della ragione e della sragione, il loro sogno comune, alfine raggiunto e subito sparito, di una riconciliazione tra «i pastori d'Arcadia e i pescatori di Tiberiade»; ma è l'annientamento stesso dell'opera che diventa impossibile da questo momento e deve tacere; il martello cade dalle mani del filosofo. E Van Gogh sapeva bene che la sua opera e la sua follia erano incompatibili, lui che non voleva domandare «il permesso di fare dei quadri a dei medici». (Michel Foucault – Storia della follia nell'età classica)

L'opera d'arte come prodotto della irrazionalità ben distinta dalla sragione, per usare i termini di Foucault, il confine è netto anche là dove la follia insinua la sua presenza? O è soltanto suggestione stereotipata che che vede l'artista in quanto “strano”, diverso e fuori dal comune, facilmente catalogabile come affine a una dimensione folle? Allora tutto ciò che è diverso, altro, è sempre catalogabile come alieno e di conseguenza potenzialmente pericoloso? Fino a che punto la difesa del nostro equilibrio basato su un quieto vivere sempre più precario, vacilla di fronte al confronto con ciò che ci destabilizza?

mercoledì 18 maggio 2011

Quando si dice il caso

Questo blog non doveva essere. Il mio blog, quello vero, doveva essere l'altro, quello che si può trovare tra le pieghe, cercando bene, di questo strano drappo che si è posto tra me e le mie intenzioni. In un'atmosfera donchisciottesca potevo scegliere se scagliarmi contro i mulini a vento restandovi appeso o  capire che potevo sfruttare l'energia data dal turbinare delle pale. Ho scelto la seconda.
Questo spiega la riverniciatura della facciata, con tanto di immagine.
Perché proprio questa immagine? Perché è un'immagine di  possibilità, un'immagine che mi fa pensare che, nonostante tutto, valga la pena di sperare in un ritorno a modi di essere e di vivere più vicini all'essenza umana autentica dove conta più l'interiorità di una persona che non la sua immagine esteriore.
Ho scelto inoltre questo quadro anche per un aspetto che mi ha sempre colpito: le mani del padre. Due mani tra loro diverse, una maschile l'altra femminile, come a unire il paterno e il materno, come a indicare la molteplicità di un abbraccio accogliente che sa proteggere e accudire, l'abbraccio che ciascuno di noi vorrebbe avere.

domenica 1 maggio 2011

Riflessioni

Tempi oscuri questi, dove le scelte riguardanti la coscienza vengono barattate in cambio di consensi, dove i valori sono merce di scambio tarati su risultati di sondaggi e proiezioni. 
Il coraggio delle posizioni scomode, impopolari, dettate da un sentire etico che prescinda da facili consensi è precluso dalla ricerca affannosa di un modus vivendi che non risulti scomodo, che non disarticoli equilibri fissati su pilastri autoreferenziali tesi soltanto alla conservazione dell'esistente.
Non mi sento di appartenere a questo coro e chiunque voglia cantare in dissonanza è il benvenuto.