sabato 13 luglio 2013

Psichismo




Se la descrizione del corpo fatta dalla psicologia classica offriva già tutto quanto occorre per distinguerlo dagli oggetti, per quale motivo gli psicologi non hanno operato questa distinzione o comunque non ne hanno tratto nessuna conseguenza filosofica? A questo proposito, va detto che, con un modo di procedere naturale, essi si collocavano nel luogo di pensiero impersonale al quale la scienza si è riferita finché ha creduto di potere separare, nelle osservazioni, ciò che dipende dalla situazione dell'osservatore e le proprietà dell'oggetto assoluto. Per il soggetto vivente, il corpo proprio poteva sì essere differente da tutti gli oggetti esterni, ma, per il pensiero non situato dello psicologo, l'esperienza del soggetto vivente diveniva a sua volta un oggetto e, anziché richiedere una nuova definizione dell'essere, prendeva posto nell'essere universale. Ecco il significato di «psichismo», che, pur essendo contrapposto al reale, era trattato come una seconda realtà, come un oggetto di scienza che andava sottomesso a leggi. Si postulava che la nostra esperienza, già investita dalla fisica e dalla biologia, doveva risolversi interamente in sapere oggettivo quando il sistema delle scienze fosse portato a termine. Conseguentemente, l'esperienza del corpo si degradava a «rappresentazione» del corpo, non era un fenomeno, ma un fatto psichico. Nell'apparenza della vita il mio corpo visivo comporta una vasta lacuna al livello della testa, ma la biologia era lì a colmare questa lacuna, a spiegarla con la struttura degli occhi, a insegnarmi che cosa in verità è il corpo, che ho una retina, un cervello come gli altri uomini e come i cadaveri che seziono, e che infine lo strumento del chirurgo metterebbe infallibilmente a nudo, in questa zona indeterminata della mia testa, la copia esatta delle tavole anatomiche. Io colgo il mio corpo come un oggetto-soggetto, come capace di «vedere» e di «soffrire», ma queste rappresentazioni confuse facevano parte delle curiosità psicologiche, erano campioni di un pensiero magico di cui la psicologia e la sociologia studiano le leggi e che fanno rientrare a titolo di oggetto di scienza nel sistema del mondo vero. L'incompletezza del mio corpo, la sua presentazione marginale, la sua ambiguità come corpo toccante e corpo toccato non potevano quindi essere dei lineamenti di struttura del corpo stesso, non ne scalfivano l'idea, divenivano i «caratteri distintivi» dei contenuti di coscienza che compongono la nostra rappresentazione del corpo: questi contenuti sono costanti, affettivi e bizzarramente accoppiati in «sensazioni doppie», ma, a parte ciò, la rappresentazione del corpo è una rappresentazione come le altre e, correlativamente, il corpo è un oggetto come gli altri. Gli psicologi non si accorgevano che, trattando in questo modo l'esperienza del corpo, non facevano altro, d'accordo con la scienza, che differire un problema inevitabile. L'incompletezza della mia percezione era intesa come una incompletezza di fatto derivante dall'organizzazione dei miei apparati sensoriali; la presenza del mio corpo come una presenza di fatto risultante dalla sua azione perpetua sui miei recettori nervosi; infine, l'unione dell'anima e del corpo, presupposta da queste due spiegazioni, era concepita, secondo il pensiero di Cartesio, come una unione di fatto la cui possibilità di principio non doveva essere stabilita, poiché il fatto, punto di partenza della conoscenza, veniva eliminato dai suoi risultati compiuti. Orbene, lo psicologo poteva sì per un momento, alla maniera degli scienziati, guardare il proprio corpo con occhi altrui, e vedere il corpo altrui, a sua volta, come un meccanismo senza interiorità. L'apporto delle esperienze estranee veniva a cancellare la struttura della sua, e reciprocamente, avendo perduto il contatto con se stesso, egli diveniva cieco per il comportamento altrui. Si installava così in un pensiero universale che rimuoveva tanto la sua esperienza dell'altro quanto la sua esperienza di se stesso. Ma, come psicologo, egli era impegnato in un compito che lo richiamava a se stesso, e non poteva rimanere a questo punto di incoscienza. Infatti, il fisico non è l'oggetto di cui parla, come non lo è il chimico, mentre lo psicologo era lui stesso, per principio, il fatto di cui trattava. Quella rappresentazione del corpo, quella esperienza magica che egli affrontava con distacco, era lui, egli la viveva nello stesso tempo in cui la pensava. Come è stato dimostrato, per conoscere lo psichismo non gli bastava certo il fatto di esserlo: al pari di ogni sapere, anche questo sapere viene acquisito solo in virtù dei nostri rapporti con l'altro; non è all'ideale di una psicologia di introspezione che ci riportiamo, e lo psicologo poteva e doveva riscoprire un rapporto preoggettivo sia fra se stesso e l'altro che fra se stesso e se stesso. Ma in quanto psichismo che parlava dello psichismo, egli era tutto ciò di cui parlava. Di questa storia dello psichismo, che egli sviluppava nell'atteggiamento oggettivo, lo psicologo possedeva già pr3esso di sé i risultati: o meglio: piuttosto ne era, nella sua esistenza, il risultato contratto e il ricordo latente. L'unione dell'anima e del corpo non si era compiuta una volta per tutte in un mondo remoto, ma in ogni istante rinasceva al di sotto del pensiero dello psicologo, non come un evento che si ripete e che ogni volta sorprende lo psichismo, ma come una necessità che lo psicologo sapeva nel proprio essere nello stesso tempo in cui la constatava con la conoscenza. La genesi della percezione, dai «dati sensibili» sino al «mondo», doveva rinnovarsi a ogni atto percettivo, altrimenti i dati sensibili avrebbero perduto il senso che dovevano a questa evoluzione. Lo «psichismo» non era quindi un oggetto come gli altri: tutto ciò che si sarebbe detto di esso, lo psichismo l'aveva già fatto prima che lo si dicesse; su se stesso l'essere dello psicologo la sapeva più lunga di lui, a detta della scienza nulla di ciò che gli era accaduto o gli accadeva gli era assolutamente estraneo. Applicato allo psichismo, il concetto di fatto subiva quindi una trasformazione. Lo psichismo di fatto, con le sue «particolarità», non era più un evento nel tempo oggettivo e nel mondo esterno, ma un evento che toccavamo dall'interno, di cui noi eravamo il compimento o il nascimento perpetui e che raccoglieva continuamente in sé il suo passato, il suo corpo e il suo mondo. Prima di essere un fatto oggettivo, l'unione dell'anima e del corpo doveva quindi essere una possibilità della coscienza stessa e si poneva il problema di sapere che cosa deve essere il soggetto percipiente per potere esperire come suo un corpo. Qui non vi era più un fatto subito, ma un fatto assunto. Essere una coscienza o piuttosto essere una esperienza, significa comunicare interiormente con il mondo, con il corpo e con gli altri, essere con essi anziché accanto a essi. Occuparsi di psicologia significa necessariamente incontrare, sotto il pensiero oggettivo che si muove fra le cose bell'e fatte, una prima apertura alle cose senza la quale non ci sarebbe conoscenza oggettiva. Lo psicologo non poteva fare a meno di riscoprirsi come esperienza, cioè come presenza immediata al passato, al mondo, al corpo e all'altro, nel momento stesso in cui voleva riconoscersi come oggetto fra gli oggetti. Ritorniamo dunque ai «caratteri» del corpo proprio e riprendiamone lo studio al punto in cui lo avevamo lasciato. In questo modo ripercorreremo il progresso della psicologia moderna ed effettueremo con essa il ritorno all'esperienza.
(Maurice Merleau Ponty, Fenomenologia della percezione, Studi Bompiani).

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