mercoledì 12 settembre 2012

Identità, relazione e Infinito


In realtà il «chi è?» non è una domanda e non è soddisfatto da un sapere. Quello cui è posta la domanda, si è già presentato, senza essere un contenuto. Si è presentato come volto. Il volto non è una modalità della quiddità una risposta ad una domanda, ma è correlativo a ciò che precede ogni domanda. ciò che precede ogni domanda non è, a sua volta, una domanda, né una conoscenza posseduta a priori, ma Desiderio. Il chi correlativo al Desiderio, il chi cui è posta la domanda è, in metafisica, una «nozione» fondamentale ed universale nella stessa misura in cui lo sono la quiddità, l'essere, l'ente e le categorie.
Certo, il chi è per lo più un che cosa. Si domanda «chi è il signor X» e si risponde: «È il presidente del Consiglio di Stato» o «È il signor Tale». La risposta si offre come quiddità, si riferisce a un sistema di relazioni. Alla domanda chi? risponde la presenza non qualificata di un ente che si presenta senza riferirsi a niente e che, però, si distingue da ogni altro ente. La domanda chi? tende ad un volto. La nozione di volto differisce da qualsiasi contenuto rappresentato. Se la domanda chi non domanda nello stesso senso della domanda che cosa, questo significa che in questo caso ciò che si domanda e chi è interrogato coincidono. Tendere ad un volto, significa porre la domanda chi proprio al volto che costituisce la risposta a questa domanda. Chi risponde e ciò che è risposto coincidono. Il volto, espressione per eccellenza, formula la parola fondamentale: il significante che viene alla luce al culmine del suo segno, come degli occhi che vi fissano.
Il chi dell'attività non è espresso nell'attività, non è presente, non assiste alla propria manifestazione, ma vi è semplicemente significato da un segno in un sistema di segni, cioè come un essere che si manifesta appunto in quanto assente dalla propria manifestazione: una manifestazione in assenza dell'essere-un fenomeno. Quando si comprende l'uomo a partire dalle sue opere, esso è più sorpreso che compreso. La sua vita e il suo lavoro lo nascondono. Simboli, essi rimandano all'interpretazione. La fenomenicità di cui si tratta non indica semplicemente una relatività della conoscenza; ma un modo d'essere in cui nulla è definitivo, in cui tutto è segno, presente che si assenta dalla sua presenza e, in questo senso, sogno.
(…)
Soltanto andando incontro ad Altri sono presente a me stesso. Non è che la mia esistenza si costituisca nel pensiero degli altri. Una esistenza cosiddetta oggettiva, quale si riflette nel pensiero degli altri, e in base alla quale faccio parte dell'universalità, dello Stato, della storia, della totalità, non mi esprime ma appunto mi nasconde. Il volto che accolgo mi fa passare dal fenomeno all'essere in un altro senso: nel discorso mi espongo all'interrogazione d'Altri e questa urgenza della risposta-stimolo acuto del presente-mi genera alla responsabilità; in quanto responsabile sono ricondotto alla mia realtà ultima. Questa attenzione estrema non attualizza quello che era in potenza, poiché essa non è concepibile senza l'Altro. Essere attenti significa un sovrappiù di coscienza che presuppone l'appello dell'Altro. Essere attenti significa riconoscere la signoria dell'Altro, ricevere il suo ordine o più esattamente ricevere da lui l'ordine di dare ordini. La mia esistenza come «cosa in sé» inizia con la presenza in me dell'idea dell'Infinito, quando mi cerco nella mia realtà ultima. Ma questo rapporto consiste già nel servire Altri.
Emmanuel Lévinas: Totalità e infinito - Jaca Book (pp. 181-184 )

venerdì 7 settembre 2012

Nome essenza dell'Io


Nome essenza dell'Io


Io ho un nome o sono un nome?
Qual è l'elemento che identifica la mia essenza?
Il mio apparire come fenomeno che si intenziona di fronte a un Tu oggettivante o il mio essere ontico, il mio Io in sé esistente per se stesso in quanto ente pensante?
Mi è sufficiente il Cogito ergo sum per dirmi Io o devo definirmi attraverso un fonema che esprima ciò che mi contraddistingue?
Il mio chiamarmi/chiamare me come Roberto definisce la mia essenza o il nome è soltanto un'etichetta che altri, i miei genitori, mi hanno consegnato a suo tempo?
Sarei diverso oggi se mi fossi chiamato Giuseppe o Andrea?
Mi sento diverso se qualcuno, scherzosamente o involontariamente storpia chiamandomi, il mio nome?
Chi sono io se devo definirmi? Con chi parlo quando parlo a me stesso? A chi mi rivolgo quando mi parlo, magari in uno specchio o attraverso i miei pensieri?
La risposta forse, non è nella definizione di me attraverso il nome ma il nome stesso, che chiamandomi a sua volta, definisce il Me ponendolo in relazione all'altro: Tu o alter ego che sia, in ogni caso l'ente intenzionato che mi è di fronte, in quanto essere altro in relazione con me.
Il nome quindi come possibilità di relazione che mi permette di entrare in contatto con la mia essenza attraverso l'oggetto, il Tu, del mio essere definito. Un Tu che mi oggettiva ponendosi come soggetto e oggettivato a sua volta da me che gli sto di fronte identificato attraverso il nome, proprio o attribuito.
In una parola, possiamo dire che il nome è relazione, di conseguenza è la relazione che mi identifica come Io oggettivato nel rapporto con l'altro e quindi mi definisce.

sabato 25 agosto 2012

L'identificazione dell'Io nella relazione con il Tu


Si potrebbe dire che l'Io è per il fatto di pensarsi. Ovvero ancora cogito ergo sum. Così esso diviene identità di pensare ed essere: è perché si pensa e si pensa perché è; e anche all'identità tra soggetto e oggetto: è il soggetto che, nell'atto di pensarsi, è al tempo stesso il proprio oggetto. Si faccia però anche attenzione al fatto che la proposizione «Io sono» non può di per sé essere pensata senza parole, ovvero senza una relazione magari ideale con il Tu – sebbene l'Io che si pensa e che esprime la propria esistenza non è chiaramente consapevole di tale relazione o magari non lo è affatto – proprio per il fatto che l'Io non esiste al di fuori di tale relazione. Se davvero viene pensata senza parole, allora non si tratta della proposizione stessa, bensì del principio di identità nella sua sottrazione e mancanza di oggetto. Si pensa il pensiero senza un oggetto cui si riferirebbe, ovvero l'Io si pensa in maniera assoluta senza in ciò capire se stesso. Può infatti capirsi solo nella relazione con il Tu. Questo non è di certo l'Io reale ma è – dato che pensa se stesso, che pensando si riferisce a se stesso e si rende dunque «oggetto» - il moi di Pascal divenuto astratto, il mio-a-me, l'Io che esiste nel «solipsismo dell'Io» di un mero pensiero. L'Io reale esiste in un rapporto con il Tu, anche il moi di Pascal, che è qualcosa di oltremodo concreto, che esiste nella sua chiusura di fronte al Tu ma comunque sempre in rapporto, seppur negativo, con il Tu. Il vero Io esiste laddove e quando si muove verso il Tu; non nell'«Io-solipsismo» del suo pensiero che sempre di nuovo si genera e si ingloba e nel quale pensa se stesso; bensì soggettivamente nell'amore – nel quale riceve senso e direzione la sua intima realtà dell'«Io voglio» e della quale l'Io intellegibile dell'etico nulla sa – oggettivamente però non altrove se non nella parola, non per il fatto che si pensa ma invece che si esprime. La parola e l'amore sono i veicoli autentici del suo rapporto e del suo «movimento» verso il Tu.”

Ferdinand Ebner: Frammenti Pneumatologici – Frammento 10. Ed. S. Paolo 1998

domenica 26 febbraio 2012

Umanità e natura

Dio disse: «Facciamo l'uomo: sia simile a noi, sia la nostra immagine. Dominerà sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, sugli animali selvatici e su quelli che strisciano al suolo». Dio creò l'uomo simile a sé, lo creò a immagine di Dio, maschio e femmina li creò. Li benedisse con queste parole: «Siate fecondi, diventate numerosi, popolate la terra. Governatela e dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su tutti gli animali che si muovono sulla terra». (Genesi – 1,26-28)









Il futuro dell'umanità costituisce il primo dovere del comportamento umano collettivo nell'era della civiltà tecnica divenuta, modo negativo, «onnipotente». In esso è evidentemente incluso il futuro della natura in quanto condizione sine-qua-non; ma, anche indipendentemente da ciò, si tratta di una responsabilità metafisica in sé e per sé, dal momento in cui l'uomo è diventato un pericolo non soltanto per se stesso, ma per l'intera biosfera. Persino se i due aspetti fossero separabili, ossia anche se in un ambiente di vita devastato (e in gran parte ricostruito artificialmente) fosse possibile per i nostri discendenti una vita nominalmente umana, la pienezza vitale della terra, prodottasi nel corso di un lungo processo creativo della natura e adesso affidato a noi, avrebbe di per se stessa diritto alla nostra tutela. Ma poiché i due aspetti non sono in effetti separabili, se non a prezzo di una caricatura dell'immagine dell'uomo, - poiché nel punto decisivo e cioè davanti all'alternativa: «conservazione oppure distruzione», l'interesse dell'uomo coincide nel senso più sublime con quello del resto della vita in quanto sua dimora cosmica, - possiamo trattare entrambi i doveri come se fossero uno solo, ricorrendo al concetto guida di dovere verso l'uomo, senza per questo cadere in una visione riduttiva antropocentrica. L'esclusiva fissazione sull'uomo in quanto diverso dal resto della natura può significare solo immiserimento, anzi disumanizzazione dell'uomo stesso, atrofia del suo essere anche nel caso fortunato della conservazione biologica, il che dunque contraddice il suo fine dichiarato, sanzionato proprio dalla dignità del suo essere. In un'ottica veramente umana rimane alla natura la sua dignità propria, che si contrappone all'arbitrio del nostro potere. In quanto da lei generati, siamo debitori, verso la totalità a noi prossima delle sue creature, di una dedizione di cui quella verso il nostro essere costituisce soltanto la punta più elevata. Ma questa, correttamente intesa, comprende in sé tutto il resto (Hans Jonas - Il principio responsabilità - Piccola Biblioteca Einaudi).


La civiltà occidentale, figlia della cultura giudaico-cristiana ha sempre considerato la natura come altro da sé rispetto all'uomo in quanto essere preposto al dominio della stessa presupponendo l'autorità consegnatagli da Dio in funzione dell'essere creato a Sua immagine e somiglianza. Da qui il concetto, latente nell'età moderna ma sviluppatosi in misura abnorme dall'epoca della rivoluzione industriale spronata dal positivismo,  che ha giustificato lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali senza prendere in considerazione la possibilità che le stesse potessero esaurirsi in un futuro prossimo, dimostrando una cecità causata dalla sete di profitto. 
Quello a cui assistiamo oggi è un fenomeno sempre più marcato di pericolo della mancanza di risorse aggravato dal fatto che lo sviluppo della condizione vitale dell'uomo si trova ad essere sempre più dipendente dalla tecnica senza la quale la civiltà non soltanto occidentale inevitabilmente ormai risulta dipendente.
A questo punto, viste le difficoltà dovute alla non troppo lontana possibilità che le risorse energetiche possano esaurirsi, è ancora possibile ipotizzare un futuro per l'umanità che prescinda dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse stesse, innescando un circolo virtuoso che riesca a ridurre in misura considerevole lo sfruttamento della natura in modo da riequilibrare, per ciò che ancora è possibile, il rapporto con l'ambiente che ci circonda? Tutto questo è utopia oppure è utopico il pensare che le risorse alle quali attingiamo quotidianamente potranno soddisfare in eterno i nostri bisogni?

sabato 18 febbraio 2012

Oriente Occidente

L'Occidente è la cultura intesa come scienza, cioè come conoscenza del mondo attorno all'io, mentre l'io è solo strumento e luogo di pensiero; ne derivano le scienze della natura e dell'osservazione. L'Oriente invece vuol dire cultura in quanto ricerca dell'io pensante, il pensiero inteso come pensiero dell'io che pensa se stesso perché l'io non è parte del tutto, ma il tutto. Il distinguere è illusione, il tutto, l'assoluto, è verità. Cercare di distinguere è la via dell'errore. In queste due direzioni il mondo s'è mosso per secoli arrivando a questo pauroso abisso di oggi in cui da una parte c'è l'io che ha dimenticato se stesso nella conoscenza dell'attorno, anzi è diventato schiavo del conosciuto – la civiltà della macchina e la fine dell'umanesimo -; dall'altra parte c'è l'io che ha raggiunto profondità ricchissime e forme di cultura avanzate, ma che, avendo dimenticato la conoscenza dell'attorno, ora muore di fame e ancora di peste e di lebbra. (Pensiero di padre Sandro Bencivenni, domenicano in Kyoto nel 1965, riportato da Tiziano Terzani nel volume “In Asia”).
Tenendo conto della datazione del pensiero sopra citato e nella consapevolezza che l'Asia di oggi non è certo quella degli anni '60, restano comunque due concezioni dell'uomo visibilmente in antitesi e dalle quali sembra difficile trarre una sintesi. L'io occidentale proiettato verso il conosciuto del quale è diventato schiavo non senza aver prima coinvolto e trascinato con sé grosse parti dell'Oriente odierno contrapposto a una concezione dell'io significativamente più autoriflessiva tipicamente orientale e che oggi appare presente in maniera trasversale e nemmeno troppo elitaria e sporadica anche in alcuni strati della cultura occidentale. Che sia forse questa la sintesi che riesce a dare un senso a tutto ciò?

giovedì 26 gennaio 2012

Vendetta o perdono

La vendetta è un piatto che si serve freddo...
La miglior vendetta è il perdono...

Saggezza popolare curiosamente contraddittoria, quasi ad indicare che il buon senso a volte spiega tutto e il suo contrario e forse anche per questo riesce spesso a trovare spiegazioni adattabili alla realtà del nostro vivere.
Ma quali sono gli istinti che ci portano al bisogno di sanare le ferite che l'altro ci può infliggere attraverso il reiterare quelle stesse ferite verso chi ci offende? Sono davvero lenitive le sofferenze altrui qualora fossero esse stesse causa delle nostre? E non esiste il pericolo che tutto questo rimandare di azioni rivendicative reiterate non porti all'innesco di una spirale auto alimentata dalla quale è impossibile uscire?
Le ferite che l'altro ci infligge o meglio, che riesce a sfiorare attraverso comportamenti per noi significanti sulla base dei nostri vissuti negativi che emergono nel momento in cui vengono toccati nervi scoperti che ancora non siamo riusciti a risolvere e affrontare, ci porta reagire in modo spesso violento ributtando addosso al nostro nemico tutta la violenza di cui siamo capaci moltiplicando spesso l'entità di quanto ricevuto. Il tutto in nome di un appagamento soltanto fittizio, in quanto frutto di una sofferenza inflitta che non potrà mai ripagare l'offesa subita che comunque resta, in quanto ferita non rimarginata, dentro di noi. La vendetta è portatrice quindi di una sofferenza non ripagata, alimentata ulteriormente da altra sofferenza che genererà a sua volta altra violenza in una coazione a ripetere che non troverà soluzione se non nella frustrazione del non essere appagata.
Altra cosa è il perdono. E non mi riferisco qui al perdono di matrice cristiana, al porgere l'altra guancia in un senso di remissività che porti all'annullamento della personalità della figura offesa, la quale si annulla e quasi si compiace della sua magnanimità legittimata dall'ampiezza del valore intrinseco della sofferenza subita.
Mi riferisco invece alla possibilità della comprensione quale pratica dell'agire nella relazione, dove comprendere significa prendere insieme, considerando analiticamente le ragioni di un agire anche violento che si rivolge contro di noi per ragioni che con noi hanno poco a che vedere, spinto probabilmente da un vissuto nel quale le ferite patite provengono da un luogo che l'agente stesso fatica a riconoscere. A questo punto l'atteggiamento comprensivo dovrebbe essere in grado di sospendere il giudizio e l'azione responsiva in nome di un'analisi delle vere ragioni che possono aver spinto il nostro interlocutore ad agire in quel modo. Lo sforzo, e qui sta tutta la difficoltà di un agire così fuori dagli schemi, dovrebbe essere appunto quello di andare incontro all'altro superando o almeno mettendo in sospensione quelle che sono le nostre ferite, toccate dalle offese ricevute, come se fossimo per un attimo riusciti a spalmare un balsamo coprente sulle nostre lacerazioni interiori. Soltanto così potremo spezzare la spirale vendicativa che altrimenti si innescherebbe in caso di una nostra risposta altrettanto violenta. La ricerca delle ragioni dell'altro, per quanto lontane dal nostro pensare, possono avere una logica insospettata ma coerente, se vista da un punto di osservazione differente, consapevoli, nel nostro comprendere, che ciascun punto di vista è comunque e sempre la vista da un punto.

lunedì 19 dicembre 2011

Per un'etica senza Dio

Con l'accettazione del principio della Morte di Dio e la conseguente caduta dell'uomo nel nichilismo, anche se inteso nel senso positivo di volontà di potenza, si pone a questo punto il problema di un etica svincolata dai precetti religiosi... alla quale dover fare riferimento, venendo ora a mancare i capisaldi a cui l'uomo, confortato dalla parola di Dio era abituato ad osservare. La scienza, nella sua attuale presunzione di onnipotenza, si pone come portatrice di valori che tali non sono. Se pensiamo solo alle nuove tecniche di rianimazione e ricerca in medicina, possiamo capire quanto oggi l'uomo sia oltremodo orfano non solo del Padre, ma anche di un senso dell'etica che non può più fare affidamento sui dogmi religiosi. L'affermazione di un'etica laica può essere la sfida lanciata all'uomo ormai orfano di Dio e finalmente costretto a fare a meno della guida paterna. Riuscirà l'uomo tecnologico a vincere questa sfida?